Il settore immobiliare, il calcio, la televisione, l’economia, la politica. Una sola vita ma un lascito enorme e multiforme di modernità, quello di Berlusconi al Paese. Un «patrimonio» che adesso anche i suoi detrattori cominciano a riconoscere.
Ci ha regalato l’immagine di Rosy Bindi mentre esce dal sarcofago con l’ultima goccia di fiele. È riuscito a farsi definire «immenso» dai Viking, ultrà della super rivale Juventus, in uno striscione appeso davanti a Villa San Martino. Sono i primi due miracoli di Silvio Berlusconi dall’Aldilà, chissà quanti altri ne arriveranno nelle prossime settimane, sull’onda del sincero afflato ma anche del cordoglio avvelenato e degli assoli di violino non richiesti.
È riuscito a far dire a Paolo Mieli che «quell’avviso di garanzia a Napoli nel 1994 atterrò al Corriere della Sera dal palazzo di Giustizia di Milano»; a Michele Santoro che «con lui c’era empatia»; a Massimo D’Alema che «ha creato in Italia una destra democratica di stampo europeo». Grazie ma è tardi, commenterebbe il Cavaliere uscendo dalle beatificazioni dei nemici come da una pasticceria, travolto dalla vaniglia.
Berlusconi multiforme, uno nessuno centomila. Berlusconi visto da destra e da sinistra, scannerizzato con impietosa superficialità dalla stampa estera dei Pulitzer «un tanto al chilo». Cantato e decantato come un vino di pregio. Questo è, difficile sfuggire alla narrazione retorica per un uomo che ha vissuto mezzo secolo da protagonista e ci lascia l’eredità di cinque rivoluzioni, non di una sola. Larger than life, con un destino più grande della vita stessa.
La prima rivoluzione è da impresario edile negli anni 70, quando decide – con Edilnord – di realizzare a Milano due quartieri che non hanno niente a che vedere con i falansteri sovietici di certe periferie (il Pilastro a Bologna, lo Zen a Palermo, Quarto Oggiaro a Milano) ma diventano piccole città nel verde con le rifiniture di pregio e i dettagli curati. Green, sostenibili, servite da mezzi pubblici: la meraviglia dell’ecologia senza l’ecologismo militante. È il perfezionismo del Cavaliere, famoso perché «ogni tanto, non visto, passa le dita sui mobili per vedere se c’è polvere» (Emilio Fede).
La seconda è da tycoon televisivo, quando crea la Tv commerciale in Italia (anni 80) importando la filosofia americana dell’intrattenimento più pubblicità. «Per la prima volta gli autori guardano al pubblico invece che al proprio ombelico», spiega con naturalezza. Il successo è enorme, ed è tutto suo perché negli stessi anni, mentre Canale 5 decolla, editori giganteschi come Mondadori e Rizzoli rischiano di portare i libri in tribunale, incapaci di gestire le potenzialità e le insidie del piccolo schermo. Lui rileva gli studi, inventa Italia 1 e Retequattro, dà una spallata alla rigidità del sistema, costringe la politica a occuparsi di quella scatola da 25 pollici nel soggiorno di ogni famiglia italiana e a superare l’impasse vetero-socialista del monoscopio di Stato. Se oggi il bouquet è immenso e nessuno si stupisce che Sky, Netflix, Amazon abbiano più appeal della Rai è anche perché un visionario nato in una casa di ringhiera nel quartiere Isola di Milano dove si parlava dialetto, 40 anni fa ha cambiato tutte le regole del gioco.
La terza rivoluzione è quella del pallone, nel regno del catenaccio e contropiede di herreriana memoria. Arriva Berlusconi (che da giovane era interista), compra il Milan e negli anni 90 lo trasforma in una macchina da spettacolo e da trofei: 29 in 31 stagioni, 8 scudetti e 5 Champions league. Anche uno dei suoi più acerrimi nemici, Fausto Bertinotti (quello che proponeva di far piangere i ricchi), si mette la sciarpa rossonera al collo davanti alla Tv. La corsa alla vittoria diventa contagiosa: Gianni Agnelli e Massimo Moratti ingaggiano con lui una sfida quotidiana a suon di fuoriclasse, e la Serie A diventa il campionato più ricco e spettacolare del mondo.
«Soprattutto ci ha insegnato il culto del coraggio», dice Arrigo Sacchi, che di quell’invincibile armada è stato l’allenatore. «Non fummo rivoluzionari ma di più, fummo inediti. Quando vincemmo la prima Champions a Barcellona, L’Équipe titolò: “Usciti da un altro mondo”. Era il mondo di Silvio Berlusconi e di un club con una storia, una visione e uno stile. Il Cavaliere voleva vincere, convincere e divertire in un paese in cui contava solo vincere». Il pallone non mentiva. E non lo fece neppure quando rivelò l’invidia mediatica, la frustrazione politica di una classe dirigente che vedeva Berlusconi come fumo negli occhi. Durante i mondiali americani del 1994 proprio Sacchi notò un’astiosa negatività della stampa italiana contro la Nazionale che arrivava all’eccesso del tifo contro. «Chiesi il motivo a un amico giornalista e mi rispose che c’era l’ordine di sparare sull’Italia perché un successo sarebbe stato anche del Berlusconi premier».
L’avversione preconcetta diventa la cifra, il brodo di coltura nei confronti della quarta rivoluzione berlusconiana: quella politica. Senza di lui non ci sarebbe la Seconda Repubblica. Ne è il protagonista principale (dal 1994 al 2022), per lunghi tratti è l’interprete più originale e duttile. Qui le regole del gioco vengono stravolte fin dalle fondamenta: mentre le élite e l’establishment guardano al potere, lui guarda alla gente comune. Ordinary people, ecco con chi bisogna avere empatia. Dà un senso al riscatto civico sul territorio, esempio principe il trionfo del macellaio Giorgio Guazzaloca nella Bologna rossa. Risveglia l’orgoglio nazionale, crea il concetto di leadership, «ci mette la faccia» come si suol dire nella Brianza dei cumenda che sognano di essere Mister B. E lui punzecchia: «Qualcuno mi definisce populista perché non sopporta che io sia popolare».
La magistratura ingaggia con lui un braccio di ferro infinito con i contorni dell’accanimento: 36 processi, 1 sola condanna. Un record che neanche il Milan… Gli intellettuali alle vongole di cui abbonda l’Italia trascorrono la vita a definirlo gassoso, concentrato a ottenere il consenso «da un pubblico culturalmente di serie inferiore, seconda media, ultimi banchi». Berlusconi ringrazia e diventa tre volte premier (quattro se si conta un rimpasto nel 2005). Nel delirio determinato dalla gastrite permanente da sconfitta elettorale, la sinistra per natura laica – se non atea – lo demonizza ritenendolo pure responsabile della «scristianizzazione del Paese per colpa delle sue Tv scosciate». L’ossessione monta in cattedra, la contrapposizione diventa omerica. E un’intera generazione di intellettuali, giornalisti, scrittori, anchormen, sottosegretari, datori di luci e vecchie zie postmarxiste attraversa gli ultimi 30 anni leggendo Gad Lerner e Michele Serra. Senza accorgersi che, nell’immensa platea di gente concreta e laboriosa che vota (e adora) il Cavaliere, ci sono anche le loro mamme.
La quinta rivoluzione è quella dell’economia, il primato dell’impresa sul collettivismo della concertazione con derive venezuelane. La piccola e media impresa è al suo fianco, lo spettacolo sul palco di Vicenza nel 2006 è il segnale di una sintonia reale e poco confindustriale. Aveva annunciato la sua assenza per una dolorosa sciatica, ma si presenta. Arranca a fatica trascinando la gamba come uno sciancato, poi con un balzo si raddrizza, conquista la posizione lasciando esterrefatto il moderatore Ferruccio de Bortoli e declina fra il delirio della folla il suo credo: «Saltare l’establishment, liquidare le élite economiche compromesse col potere e trovare un punto di verità con gli imprenditori, il popolo vero, oltre i mandarini dei piani alti confindustriali». Per l’allora presidente Luca di Montezemolo e il suo furente coéquipier Diego Della Valle è una giornata infernale. Ed è la fine degli equivoci.
Berlusconi intuisce il freno della burocrazia, il peso insopportabile dell’elefante pubblico, anticipa le privatizzazioni prodiane, le spallate renziane. Ma neppure lui è contento di quella rivoluzione liberale della macchina dello Stato «lasciata a metà per colpa di alleati pavidi che mi hanno messo i bastoni fra le ruote». Non è solo così, forse il moloch pubblico è davvero irriformabile. Lui ci ha provato. Come in politica estera, quando a Pratica di Mare (2002) riesce a far stringere la mano a Vladimir Putin e a George W. Bush durante un vertice Nato. Una scena inimmaginabile oggi con gli statisti da Risiko che ci meritiamo.
Uno nessuno centomila Berlusconi. C’è quello che spolvera la sedia di Marco Travaglio nella trasmissione più vista nella storia de La7. C’è quello che accompagna con la bandana la moglie di Tony Blair a passeggio per Porto Rotondo. C’è quello che, consapevole dell’ultimo giro di giostra, chiede di essere accompagnato nei luoghi della sua vita e si presenta a Oltrona San Mamette, Valsolda (Como), dove la famiglia era sfollata durante la guerra per sfuggire ai bombardamenti americani di Milano. Vorrebbe visitare il santuario, ma è lunedì ed è chiuso. La burocrazia non è solo statale. C’è il Berlusconi che durante il G8 di Genova critica l’inadeguatezza dei limoni di rappresentanza davanti a Palazzo Ducale e costringe gli addetti ad appendere gli agrumi nottetempo con il filo da pesca. E c’è quello certamente divertito dalla coincidenza suprema: nel giorno delle esequie, uno dei suoi più acerrimi inquisitori, Piercamillo Davigo, rischia la condanna per «aver violato la legge nel suo salotto» (rivelazione di segreto d’ufficio).
C’è un Berlusconi per tutti. Anche quello che un mese fa ha detto alla figlia Marina che sulla lapide avrebbe voluto essere ricordato come «un uomo forte, giusto e generoso». Al termine delle cinque rivoluzioni lui è in pace con sé stesso. E può sorridere in silenzio davanti all’Italia in agitazione, come faceva quando spiegava perché aveva chiamato «Principessa vai via» il suo yacht più prezioso. «Quando era bambina, raccontavo a Marina la favola della buonanotte con re, streghe e damigelle. A un certo punto le si chiudevano gli occhi, allora diceva: principessa vai via. Era il momento di lasciarla dormire».
