Certe combinazioni politiche possibili nella prossima elezione del presidente della Repubblica sarebbero assai gradite a Pechino. Ma nel toto-nomi dei candidati ci sono molte variabili. Per esempio quella, decisiva, sulle chance di Mario Draghi… Ecco come, tra eterni candidati e ambizioni di personalità istituzionali, la corsa al Colle più alto peserà sugli equilibri politici.
La scalata al Colle, a inizio 2022, sarà il passaggio cruciale. Chi entra al Quirinale dà le carte della Repubblica. Perciò la sinistra, che colleziona batoste alle urne, spera di potersi aggrappare al successore di Sergio Mattarella per condizionare l’eventuale futuro esecutivo a trazione sovranista.
A questo risiko, in una fase storica così complicata, s’è aggiunta un’incognita in più: Pechino. Cosa c’entra la Cina con il Quirinale? C’entra. Magari il Dragone non briga dietro le quinte. Non può sperare di alterare le alchimie dei palazzi romani. Tuttavia, spera in un singolare incrocio tra i disegni del Partito democratico e i progetti del suo soft power. Specialmente qualora i dem riuscissero nel colpaccio: sistemare al Quirinale il fremente Romano Prodi, storico amico di Pechino.
Il piano per portarlo sullo scranno più alto d’Italia, caldeggiato dal neo-segretario Pd, Enrico Letta, prevede anzitutto d’imbrigliare il concorrente più insidioso: l’attuale premier, Mario Draghi. Ovvero, la personalità sulla quale potrebbe puntare una destra a corto di candidati e agibilità politica. E in effetti, il nome di Super Mario era stato tirato fuori, in tempi non sospetti, dalla Lega, su impulso di Giancarlo Giorgetti. Per il Pd, sarebbe complicato rifiutargli il sostegno.
Il discorso, però, cambierebbe, se la reputazione dell’uomo del «Whatever it takes» venisse macchiata da qualche clamoroso flop. Specie sulla campagna di vaccinazioni, che stenta a decollare. Ed è anche per questo che Letta cerca l’incidente con Matteo Salvini. L’obiettivo? Far sprofondare Draghi in un «irrespirabile Vietnam». L’inquilino di Palazzo Chigi per adesso annaspa nel pantano d’una maggioranza composita, divisa tra rigoristi e aperturisti. Il mito di Super Mario rischia di uscirne minato, il suo appeal quirinalizio annullato. E c’è chi si spinge fino a sostenere che sia stato Mattarella in persona a orchestrare la trappola, irretendo Mr. Bce per toglierlo di mezzo dalla corsa al Colle.
Se il tranello riuscisse, avrebbe campo più libero proprio Prodi. Una soluzione che farebbe comodo al potere cinese. Prodi è un habitué della Fondazione Italia-Cina. Il professore è altresì un grande fan della Via della seta, come ribadì lo scorso anno, in un webinar con Justin Lin Yifu, già numero due della Banca Mondiale, oggi docente all’Università di Pechino. Anzi, per essere precisi, Prodi considera la Repubblica popolare un modello da imitare. Poche settimane prima dello scoppio della pandemia, dichiarava: «Attualmente, il costo del lavoro italiano è (…) meno lontano da quello cinese. Non siamo a costo pari, ma ci stiamo avvicinando e bisogna preparare il futuro».
Un futuro che piacerebbe molto al «líder maximo» Xi Jinping, alla ricerca di grimaldelli nel mondo occidentale. D’altronde, a febbraio 2020, l’ex premier dell’Ulivo minimizzava le responsabilità del regime comunista nella diffusione del Covid: «In tante circostanze di questo tipo prima di dire “c’è una grande epidemia” si è sempre avuta grande prudenza». Dopo la visita di Mattarella alla scuola cinese dell’Esquilino, quando la priorità italiana erano gli involtini primavera; dopo le sfilate con le bandierine rosse propiziate da Luigi Di Maio; Prodi al Colle, per Pechino, sarebbe un preziosissimo alleato nel ventre molle dell’Europa.
Ma anche l’eterno quirinabile, Massimo D’Alema, potrebbe tornare utile al Dragone. L’ex esponente comunista oggi milita in Leu. Tuttavia, come l’amico Pier Luigi Bersani, è un nostalgico dell’unità delle sinistre. Le sue quotazioni, invero, sono un po’ scese. Anzitutto a causa di scandali e fallimenti del suo protetto, l’ex commissario Domenico Arcuri. Ma anche per la vicenda dei 140 respiratori cinesi farlocchi, ritirati dagli ospedali del Lazio: la società che li aveva venduti, Silk road global information limited, era infatti collegata al think tank governativo Silk road cities alliance, il cui presidente onorario è proprio D’Alema. Il quale, in tema di 5G, ha idee molto simili a quelle del «cinese» Beppe Grillo. Per di più, ai vertici dell’ente venuto alla ribalta per il caso dei ventilatori, figurava l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli. Pure di lui si diceva fosse tentato dalle sirene del Colle. Magari confida di giocarsi la carta dei suoi trascorsi green, tornati di moda con Greta Thunberg. Dunque, se tutte le strade portando a Roma, quella della Seta sembra portare dritta al Quirinale.
Nel frattempo, c’è un’ampia rosa di aspiranti statisti che scalpitano a bordo campo. A partire da Walter Veltroni. Al contrario di Prodi e D’Alema, di cui è avversario, l’ex primo cittadino della capitale ha con la Cina uno sgradevole precedente: lo scorso settembre, era emerso che Zhenhua Data, società tecnologica del Paese asiatico, aveva schedato il suo profilo con quello di altri 4 mila cittadini italiani conosciuti. Veltroni ha adottato una strategia pop: chili di melassa spalmati sul Corriere della sera, romanzi e pure gialli, il documentario su Fabrizio De André e la Pfm, il libro Odiare l’odio. Un perfetto manifesto buonista, il miglior biglietto da visita per un capo dello Stato capace di produrre in serie discorsi di maniera, originalissimi elogi della solidarietà, condanne dei risorgenti nazionalismi.
Naturalmente non è detto che il Pd riesca a piazzare un presidente organico al partito. C’è da fare i conti con il pallottoliere: la maggioranza dei due terzi dell’Aula serve solo entro i primi tre scrutini, ma anche la maggioranza assoluta, con i delegati regionali quasi tutti appannaggio del centrodestra e le incognite di pentastellati e pattuglie renziane, non è scontata. Per le stesse ragioni, ha scarse chance Silvio Berlusconi, che fino a qualche mese fa, accarezzava un glorioso finale di carriera. È vero che diversi esponenti Cinque stelle lo considerano «meglio di tanti politici nuovi». Ma se al Colle non ci deve arrivare Prodi, nessuno permetterà a lui di entrarci. Della necessità di raccogliere un consenso trasversale potrebbe invece beneficiare l’ambiziosissima Marta Cartabia, oggi ministro della Giustizia.
Di lei abbiamo già ricostruito i carpiati che l’hanno portata, da cattolica tradizionalista, nemica dei «nuovi diritti» in salsa Lgbt, a diventare la pupilla di Giorgio Napolitano. La giurista ha dalla sua il trend femminista, cui ha attinto quando è stata eletta a capo della Corte costituzionale. E proprio la sua natura anfibia, come accadde con Mattarella nel 2015, potrebbe farla percepire a tutti come una figura di garanzia: nominalmente cattolica, sì, ma pure europeista, funzionale al partito dei competenti e al pensiero mainstream.
Che lei ci speri non è un mistero. Anzi, nei suoi disegni, la scalata prevedeva esattamente le tappe da lei intraprese: la cattedra alla Bocconi, l’ingresso in un governo di unità nazionale (la giurista s’immaginava premier, ma da Guardasigilli ha meno rogne e le mani libere), l’approdo storico da prima donna al Quirinale.
Un eventuale stallo in Parlamento, comunque, potrebbe riportare in auge financo l’opzione «re Giorgio». Nel 2013, viste le fumate nere in Aula, le forze politiche implorarono il presidente uscente di rendersi disponibile a un secondo mandato. Napolitano accettò, con scadenza: due anni dopo, risolta la crisi politica, si dimise. Mattarella ha più volte negato il desiderio di rimanere al Quirinale. D’altro canto, solo chi è destinato a bruciarsi si candida in modo esplicito.
A suo sfavore, depone il prevedibile esito delle elezioni 2023: se i partiti sovranisti la spuntassero e lui lasciasse l’incarico in anticipo, la destra avrebbe i numeri per imporre un suo prescelto. In politica, però, ogni giorno ha la sua pena. E se il Parlamento in seduta comune non trovasse una quadra, se davvero Draghi finisse impallinato dalle disavventure a Palazzo Chigi, il bis potrebbe essere il compromesso più indolore. Per Mattarella, vale quindi un adagio alla Franco Califano: non escludo il ritorno.