Dopo le promesse di rilancio, la multinazionale Usa ha detto addio all’Italia. Il salvataggio dello stabilimento di Napoli, sbandierato da Luigi Di Maio, si è rivelato una chimera. Ora il dossier è tornato in mano pubblica, in attesa di nuovi acquirenti. Ma il rischio è un ennesimo colpo a un settore strategico.
Un’altra Termini Imerese alla porte di Napoli? Il rischio c’è, al termine di una vicenda che per molti versi richiama la storia tormentata dell’area industriale ex Fiat in Sicilia. In questo caso a gettare le basi per l’ennesimo spreco di denaro pubblico non è il ridimensionamento dell’automotive ma la crisi dell’elettrodomestico. A Napoli si è consumato infatti un lungo braccio di ferro con la Whirlpool per tentare di salvare uno stabilimento che produce lavatrici. Indovinate chi ha vinto: naturalmente la multinazionale, che dopo aver ricevuto aiuti pubblici di varia natura per svariati milioni ora lascia a casa 320 lavoratori, a carico della collettività.
Sul tavolo del ministro dell’Industria e del made in Italy Adolfo Urso ci sono molti dossier di aziende in difficoltà, spesso legate a gruppi internazionali: dall’ex-Ilva della Arcelor Mittal alla Jsw di Piombino, dalla Qf di Firenze (ex Gkn) alla Bosch di Bari. Ma il caso Whirlpool è esemplare perché rivela in modo palese l’inadeguatezza della politica di fronte alle forze del mercato e alle strategie delle grandi multinazionali in un comparto fondamentale per l’economia nazionale: l’elettrodomestico è il secondo settore manifatturiero in Italia dopo l’automotive.
Il nostro Paese è stato la culla europea di tanti prodotti del «bianco» come lavatrici, frigoriferi, lavastoviglie grazie ad aziende innovative come Candy o Indesit. Imprese incapaci però di resistere in un campo dove la concorrenza dei produttori a basso costo è durissima, e quindi acquisite da gruppi esteri. Whirlpool, parola che significa vortice o anche idromassaggio, è un’azienda americana nata nel 1911 a Saint Joseph, nel Michigan. Agli esordi si chiamava Upton Machine Company e ha assunto l’attuale denominazione nel 1950. Oggi è la maggiore azienda del mondo nel settore degli elettrodomestici con un giro d’affari di circa 20 miliardi di dollari. In Italia ha una solida presenza avendo stabilito a Varese il polo continentale degli elettrodomestici da incasso.
Nove anni fa, nel 2014, la società ha acquistato dalla famiglia Merloni la Indesit, compreso lo stabilimento di Napoli. Secondo Barbara Tibaldi, segretaria nazionale della Fiom-Cgil e responsabile settore elettrodomestici, la Whirlpool è calata in Italia non per valorizzare la nostra produzione ma per conquistare quote di mercato, soprattutto in Russia e nell’est Europa. «A differenza dell’Electrolux, che ha investito nei suoi impianti italiani per renderli più automatizzati e quindi più efficienti» sostiene la sindacalista «Whirlpool ha reagito alla concorrenza low cost investendo di meno e orientando la produzione a Napoli verso le lavatrici di alta gamma. Facendo così però i volumi si sono ridotti».
La crisi esplode improvvisamente il 31 maggio 2019, quando Whirlpool annuncia la chiusura della fabbrica napoletana che allora dava lavoro a circa 400 persone. L’azienda spiega che l’impianto è in rosso, ha accusato perdite annue di 20 milioni di euro nei due esercizi precedenti. Un fulmine a ciel sereno: sette mesi prima, nell’ottobre 2018, era stato firmato un piano industriale triennale che prevedeva il rilancio dello stabilimento di Napoli mentre il governo si impegnava a garantire incentivi, sgravi fiscali e una pesante tornata di ammortizzatori sociali. E per la verità altri aiuti erano arrivati nel 2015. Forse decine di milioni sono stati versati dallo Stato per mantenere la produzione in Italia, ma il dato non è mai stato reso noto.
Immediatamente scatta lo sciopero a Varese, dove c’è una delle fabbriche più importanti del gruppo in Italia: il timore è che dopo Napoli ci sarebbero state altre chiusure (paure ancora più concrete adesso, visto che la Whirlpool ha ceduto le sue attività europee ai turchi della Arcelik). Interviene la politica che, aggiunge Tibaldi, «si dimostra totalmente incapace di interloquire con la multinazionale. I rappresentanti del governo si limitano a trattare con il management italiano, che naturalmente non ha il potere di fare scelte strategiche, e non parlano mai con gli americani». A un incontro con i vertici dell’azienda, riferisce la sindacalista, Luigi Di Maio, allora responsabile dello Sviluppo economico (ora diventato ministero dell’Industria e del made in Italy) si siede vicino ai sindacati e insulta i manager. Con queste premesse poco promettenti inizia una lunga trattativa per scongiurare la chiusura della fabbrica, magari riportando alcune produzioni dalla Polonia a Napoli, in cambio di ulteriori incentivi. Il governo promette infatti un nuovo pacchetto di sostegni in una cifra vicina a 100 milioni. Numeri contestati dalla multinazionale che invece quantifica gli aiuti in appena 14 milioni effettivi. Nonostante la mancanza di un accordo, il 30 ottobre 2018 Di Maio annuncia giulivo: «Sono orgoglioso di dire che ce l’abbiamo fatta, Whirlpool non licenzierà nessuno e, anzi, riporterà in Italia parte della sua produzione».
E in effetti, grazie alla pandemia che fa impennare le vendite di elettrodomestici, la fabbrica di Napoli riparte. Ma finita l’onda anomala di acquisti, la Whirlpool torna al suo piano originario di chiudere la fabbrica, alla faccia degli annunci di Di Maio. La patata bollente intanto è passata a Stefano Patuanelli che a quel punto inizia a parlare di «re-industrializzazione» dell’area. Parola che nel Mezzogiorno fa venire i brividi, pensando al destino di Termini Imerese in Sicilia, ancora in attesa di un rilancio dopo 11 anni di ammortizzatori sociali. C’è da aggiungere che l’impianto Whirlpool di Napoli può far gola a interessi poco trasparenti in un’area condizionata dalla camorra. Il ministero e in particolare la viceministra al Mise, la pentastellata Alessandra Todde, mettono insieme un consorzio di imprese capitanate dalla Adler, colosso della componentistica auto, che avrebbe dovuto occuparsi di mobilità sostenibile realizzando colonnine elettriche, batterie, veicoli a due ruote. Immancabile la presenza di Invitalia. I sindacati perdono un anno a parlare con questo consorzio senza arrivare ad alcun risultato concreto. Un copione già visto a Termini Imerese.
Nel frattempo Whirlpool dice basta, spedisce le lettere di licenziamento e si dichiara disposta a cedere a un prezzo simbolico lo stabilimento. I sindacati cercano di ottenere il più possibile e firmano un accordo che prevede un incentivo di 95 mila euro a ciascun licenziato (scesi in tutto a 320), oltre al mantenimento di un reddito grazie all’indennità di disoccupazione e all’erogazione di corsi di formazione. Ma sulla cessione dell’impianto intervengono il ministero dell’Ambiente e la Regione, i quali mettono in dubbio la sua agibilità. Per fortuna il prefetto di Napoli prende in mano il dossier, elimina gli ostacoli alla vendita dell’impianto. Arriviamo così allo scorso mese di dicembre: lo stabilimento viene ceduto per zero euro al commissario della Zona economica speciale della Campania, un’area all’interno delle quali le imprese possono beneficiare di agevolazioni fiscali e di semplificazioni amministrative.
Di Zes in Italia ce ne sono otto, tutte nel Mezzogiorno. L’impegno di quella campana è di vendere successivamente l’impianto a fronte di un progetto industriale solido e dell’assunzione di tutti gli ex dipendenti alle stesse condizioni economiche e normative precedenti. «In sostanza abbiamo messo al sicuro lo stabilimento» dice Tibaldi. Che chiosa: «Si sono succeduti cinque ministri, Carlo Calenda, Di Maio, Patuanelli, Giancarlo Giorgetti e ora Adolfo Urso, e non hanno ottenuto niente. È mancata l’autorevolezza della classe politica. Del resto, se non si inserisce l’elettrodomestico tra i settori strategici al pari delle telecomunicazioni o dell’acciaio, lo Stato può fare ben poco». A ora si aspetta un cavaliere bianco. O anche di un altro colore.
