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Chi finanzia le intercettazioni

Chi finanzia le intercettazioni

Mentre si discute di una riforma che vuole limitare uno spropositato controllo elettronico sui cittadini, si impone la domanda: chi finanzia questa massa di (onerose) operazioni? Per qualcuno si autosostengono con le confische alla mafia. Ma, numeri alla mano, non è così.


Anatema, il governo Meloni vuole riformare l’uso delle intercettazioni. Non solo abolendo lo scandalo della «pesca a strascico», che tanti danni ha provocato a cittadini innocenti maciullati dal tritacarne mediatico-giudiziario, ma anche mettendo piede nel campo minato della loro reale efficacia. Chiedendosi insomma: ma oggi a che cosa servono davvero le «captazioni elettroniche»? Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha dato fuoco alle polveri: «Il loro utilizzo è eccessivo, sproporzionato, nel numero e nei costi rispetto ai risultati. E la spesa sfugge a ogni controllo perché le Procure non hanno un budget». Subito la compagnia dei difensori d’ufficio, che va dall’Associazione nazionale magistrati ai comitati antimafia, ha strillato allo scandalo. La tesi più gettonata è che razionalizzare la spesa sarebbe un attentato all’autonomia dei pm.

Giuseppe Santalucia, presidente del sindacato delle toghe, è stato chiaro: «Con quest’idea del budget il potere esecutivo interferisce con l’azione giudiziaria. È, a bene vedere, una forma surrettizia per introdurre una dipendenza della magistratura dalle scelte dell’esecutivo». E ha aggiunto: «Le inchieste realizzate grazie – anche – alle intercettazioni generano un beneficio all’erario in generale ma anche ai ministeri della Giustizia e dell’Interno». Ma è davvero così: le indagini portano ricchezza? Non proprio. I sequestri e le confische, derivanti dall’attività investigativa antimafia, sono solo nominalmente superiori ai costi operativi. E, per rendersene conto, basta guardare i numeri. Nel 2022, a fronte di circa 200 milioni di spesa per intercettazioni, sono stati strappati alle mafie patrimoni per circa tre miliardi di euro, secondo i dati del Viminale. Ma questo «tesoro» non rappresenta un valore aggiunto per lo Stato né un «beneficio all’erario» perché è composto quasi interamente da beni che assorbono reddito invece di produrlo. Le aziende, per esempio. Al 30 settembre 2023, nel database di Infocamere risultano sequestrate oltre 13 mila società ma solo tremila sono rimaste attive (23 per cento). Le altre sono state messe in liquidazione o semplicemente sono morte per abbandono. «Si potrebbero adottare molte misure di sostegno per queste aziende e per impedire che anche quelle che potrebbero avere un futuro non siano costrette a chiudere per l’incremento dei costi derivanti dalla legalizzazione e dalla chiusura delle linee di credito» spiega a Panorama Domenico Posca, ceo di Agn (Amministratori giudiziari network). Come? «Investendo sugli amministratori giudiziari, veri manager della legalità, specializzati nel mantenere queste imprese sul mercato e istituendo una cabina di regia per la politica industriale delle aziende sequestrate e confiscate sotto la guida della presidenza del Consiglio».

Non basta una sentenza di un giudice per far sopravvivere una società. Chiedete, per esempio, alla famiglia Cavallotti che a Palermo ha visto fallire le proprie aziende (valore 11 milioni) dopo che le sono state espropriate nonostante fosse uscita pulita da un processo per mafia. Oppure a quella dell’imprenditore di Gela Riccardo Greco, suicidatosi dopo aver ricevuto una infondata interdittiva antimafia poi sconfessata da un’assoluzione. Ai figli è stato riconosciuto un indennizzo di 40 mila euro ma nessuno potrà mai risarcirli per quel che hanno perduto in appena tre mesi. Ancor più problematica è la gestione dei quasi 25 mila immobili da destinare ad attività sociali o di interesse pubblico. Una zavorra «succhiasoldi» per i Comuni. E questo perché la normativa impedisce di vendere i beni confiscati. Sistema che invece garantirebbe l’avvio di un circuito virtuoso e di sviluppo. Come sottolinea al nostro settimanale Adolfo Grauso, già capocentro della Direzione investigativa antimafia di Napoli. «Con le opportune garanzie di legalità e procedimenti trasparenti, i beni confiscati potrebbero, anzi dovrebbero essere messi sul mercato per garantire un reale ritorno alle casse dello Stato. Oggi la gestione risulta poco efficiente ed efficace. Terreni, ville, appartamenti, edifici vanno in malora e questo è un danno d’immagine che fa il gioco delle mafie». Emblematico è il caso di Roccella Valdemone, in provincia di Messina, dove a fronte di 657 cittadini l’Amministrazione comunale deve prendersi cura di ben 285 beni immobili e terreni confiscati. Ovviamente, senza fondi.

È ancora possibile, quindi, sostenere che le intercettazioni si ripagano da sole grazie a sequestri e confische? E poi: quanto l’assiduo ricorso alle intercettazioni risulta davvero risolutivo in una investigazione? Per il giudice Luigi Bobbio, ex pm antimafia, «il governo dovrebbe intervenire anche sulla rilevanza probatoria delle intercettazioni, diventate impropriamente delle prove». Bobbio illustra: «Le intercettazioni dovrebbero essere semplicemente uno strumento per avviare, ove ritenute congrue, le indagini per la ricerca delle prove e non essere presentate come prove in sé anche perché sono uno strumento pericolosissimo esposto ai rischi delle interpretazioni soggettive, dell’utilizzo non sempre limpido delle trascrizioni da parte della polizia giudiziaria e in particolare delle Procure e si prestano a problemi gravissimi anche e soprattutto per il diritto di difesa. Solo così gli organi inquirenti la smetteranno di adagiarsi sulle intercettazioni, telefoniche o ambientali, e finalmente ricominceranno a fare le indagini vere, quelle classiche per trovare delle prove e non delle suggestioni telefoniche o ambientali».

È sulla stessa lunghezza d’onda l’avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali internazionali: «La riforma del governo è molto positiva, anche se da completare. Il partito delle Procure si dovrà rassegnare a non utilizzare le intercettazioni come mezzo di pressione sulla società, sugli indagati e sulla politica. E al contempo dovremmo riuscire anche a ottenere benefici nel taglio dei costi, diventati insostenibili». Il senatore Gianluca Cantalamessa (Lega), componente della commissione Antimafia, offre una prospettiva diversa sulla riforma delle intercettazioni: «La qualità di una democrazia si misura anche dalla libertà della stampa di pubblicare notizie e opinioni scomode. Altrettanto evidente è la necessità di regole precise, perché non può esistere il diritto alla gogna. È il binomio media-intercettazioni come mezzo di pressione che non ci piace e non ci piacerà mai». Con buona pace degli ultraortodossi difensori delle centrali d’ascolto.

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