Home » IL GOVERNO STA UCCIDENDO LA MONTAGNA E LO SPORT

IL GOVERNO STA UCCIDENDO LA MONTAGNA E LO SPORT

IL GOVERNO STA UCCIDENDO LA MONTAGNA E LO SPORT

Impianti chiusi, continui rinvii, ristori in ritardo. La montagna ormai sta per mettere la parola fine ad una stagione mai iniziata e senza alcun aiuto dal governo. E non è che le cose vanno meglio per chi gestisce impianti sportivi privati. Con danni da miliardi di euro.


«Noi vorremmo sopravvivere alla pandemia, non arricchirci o fare utili. Sopravvivere». Che significa, per le donne e gli uomini della montagna, riuscire almeno a capire cosa sarà della stagione perché l’industria della neve e del turismo invernale, comparto da 10-12 miliardi di euro di fatturato compreso indotto e filiera e 200.000 addetti ai lavori, sembra essere uscito dall’agenda delle priorità governative lo scorso 8 marzo con il primo lockdown per non rientrarci più se non a colpi di annunci puntualmente disattesi.

L’ultimo, contenuto nel Dpcm firmato da Conte prima della crisi con Italia Viva, ha fissato al 15 febbraio il giorno della riapertura. Un termine al quale non crede nessuno o quasi. Di certo faticano i gestori degli impianti di risalita, un micro (nemmeno troppo) cosmo di oltre 2.000 aziende che rappresenta l’anello di partenza di tutto il sistema. Per capirci, impossibile sciare senza una funivia a disposizione. Nei grandi comprensori da centinaia di migliaia di sciatori come nelle piccole stazioni, in una rete che in tutta Italia, tra Alpi e Appennini, conta 6.700 chilometri di piste da discesa e 1.926 per il fondo.

Valeria Ghezzi, che di lavoro gestisce gli impianti di San Martino Castrozza in Trentino, è presidente di ANEF, l’associazione che raggruppa la quasi totalità degli esercenti di un settore che a pieno regime ha un giro d’affari da un miliardo di euro all’anno e che oggi è in ginocchio. Non l’unico di un Paese in cui la linea di demarcazione tra sommersi e salvati è stata sottile e allo stesso tempo netta, ma di certo un esempio di come la politica degli annunci abbia aggiunto danni a quelli provocati dalla pandemia in un corto circuito costato decine di milioni di euro letteralmente buttati via. Anche se si dovesse davvero riaprire il 15 febbraio, come promesso dal Dpcm.

«La data l’abbiamo letta nel documento, ma fatico a credere che si possa tornare sulle piste da sci il 15 febbraio e riaprire palestre e piscine il 5 marzo. Perché? Non vorrei che fosse l’ennesima volta in cui ci fanno lavorare, spendere e attrezzare per poi comunicarci tre giorni prima che si rimanda»

Un film già visto o no?

«A dicembre, il 7 gennaio e poi ancora qualche giorno fa, il 18. Il timore è che continuino a giocare sulla nostra pelle. La stagione fin qui è stata drammatica»

Perché?

«Drammatica perché il nostro è un sistema particolare dove la maggior parte dei costi è concentrato tra aprile e novembre, quando si fanno investimenti su manutenzione e sicurezza. E noi nei mesi scorsi abbiamo fatto debiti che adesso dobbiamo pagare, mentre gli impianti sono fermi e non consentono di guadagnare»

E se ripartiste veramente a metà febbraio?

«Le faccio due stime. Con la stagione ferma del tutto perdiamo un miliardo solo noi degli impianti più tutto l’indotto. Potendo rimetterci in moto nella data promessa recuperiamo qualcosa, tra i 200 e i 300 milioni di euro, che serviranno per pagare i debiti e riuscire almeno a far lavorare una parte della nostra gente».

Perché la montagna che muore senza sci non è un capriccio, ma un tessuto sociale economico in cui la crisi sta colpendo trasversalmente dentro migliaia di famiglie. Chi lavora negli impianti, chi negli alberghi o nella logistica: si ferma uno e si fermano tutti.

«Col risultato che la montagna rischia di spopolarsi e di perdere il controllo sul suo territorio perché chi può va nella città più vicina e si mette a lavorare lì. Il nostro è un equilibrio delicato che è andato in frantumi».

Quanto pesa l’incertezza?

«E’ devastante e costosissima. E le dico che, anche dovesse esserci il via libera il 15 febbraio, non è detto che tutti riaprano. Lo faranno quelli che sono più vicini a città e grandi bacini, dove può esistere un turismo di prossimità, ma dove il sistema alberghiero deciderà di fermarsi perché non conviene dovranno restare fermi anche gli impianti. A che servirebbe spendere altri soldi?»

La stessa incertezza che ha spinto a novembre ad innevare le piste al costo stimato di 15.000 euro per ettaro. E a intervenire ancora dopo le nevicate record di dicembre per rimettere tutto il sistema in sicurezza, allestito, pronto ad accendersi in pochi giorni. Come promesso e come non accaduto. Soldi che vengono spesi ancora, senza sosta e senza prospettiva.

Questa estate è andata meglio ai vostri colleghi delle spiagge…

«E’ vero che i contagi erano calati, ma io ricordo che a maggio il Governo si è affrettato a dire ‘Gli italiani andranno al mare’ mentre per noi è stato diverso»

In che senso?

«Siamo partiti da subito col preconcetto che in fondo si trattava di rinunciare solo a una sciata e non hanno mai capito che siamo una realtà in cui tutte è legato e che la montagna la stanno ammazzando. Chi avrà la forza la prossima estate di fare gli investimenti che servono ogni anno? E di garantire lavoro alla gente delle valli e ripartenza del sistema?»

Siete stati trattati in modo diverso?

“Non siamo all’asilo e in un momento come questo non serve mettersi a recriminare. Però abbiamo toccato la mano che per il nostro Governo la montagna è un mondo totalmente sconosciuto. Hanno fatto un danno enorme, che pagheremo a lungo sperando di riuscire a restare in piedi».

«Palestre ed impianti non riapriranno, altro che ristori…»

IL GOVERNO STA UCCIDENDO LA MONTAGNA E LO SPORT
(Ansa)

“Non è una guerra tra poveri, ma siamo al limite e dobbiamo farci sentire perché abbiamo bisogno di aiuto”. La voce di Antonio Erario arriva forte come forte è il messaggio che vuole lanciare insieme a chi, con lui, ha deciso di trasformare una protesta solo virtuale – nata in una pagina Facebook nei giorni del lockdown – in qualcosa di organizzato e strutturato sul territorio. E’ nata così LIS (Lega Imprese sportive), non solo un sindacato che mette insieme centinaia di imprenditori del settore dell’impiantistica sportiva privata, ma l’estremo tentativo di consentire a una tra le categoria più penalizzate dal Covid di stare in piedi.

“Siamo disperati, abbiamo davvero bisogno di aiuti perché molti di noi rischiano di non riaprire” insiste, provando a dettagliare le ragioni che hanno spinto a cercare un contatto diretto con le istituzioni dopo mesi di promesse, delusioni, Dpcm e silenziosa resistenza.

Chi siete?

“Siamo imprenditori che hanno scelto di provare a parlare direttamente con il Governo per trovare una soluzione alla crisi che ci sta colpendo in maniera durissima. Eravamo 3.400 sul gruppo Facebook da cui siamo partiti e adesso siamo in alcune centinaia sulla piattaforma che abbiamo costruito e che ci sta aiutando a strutturarci con rappresentanze in tutto il territorio”.

Perché lo fate? In fondo il tema dello sport di base penalizzato dal Covid è già presente nel dibattito politico

“La verità è che una buona parte della categoria dell’impiantistica sportiva di base non è stata tutelata fin qui. Le associazioni nate in passato si sono occupate di altri sport, come è anche normale che sia in tempi non di crisi. Ma con il Covid è nata l’esigenza di essere rappresentati e di avere anche noi una voce in capitolo”

Anche l’ultimo Dpcm di gennaio vi lascia chiusi

“Chiusi e non si parla nemmeno di riapertura. Applicare i protocolli di sicurezza è sempre stato difficile per noi, anche se nessuno si è mai tirato indietro e abbiamo sempre rispettato tutte le prescrizioni. Ora, però, le scelte del Governo non ci danno nessuna prospettiva di poter tornare a lavorare a breve e ci costringono a continuare a ragionare con la logica dei ristori”

Che ci sono e sono stati abbondanti…

“I ristori devono essere ragionati e fino ad oggi non lo sono stati. Noi dobbiamo arrivare ancora in piedi al momento in cui si potrà riaprire e in questo momento non sappiamo nemmeno quando accadrà, se fra cinque o sei mesi…”

Però il ministro Spadafora rivendica quasi quotidianamente i soldi che ha riversato sul settore dello sport di base per sostenerlo. Che ne è stato?

“Ci sono categorie che sono rimaste escluse da ogni tipo di sostegno. Il nostro settore non è composto solo da Asd e società sportive, c’è anche un mondo di Srl e profit che non ha avuto nulla. Al di là della notizia del ristoro del 200% rispetto a quanto dato nei primi mesi non c’è niente e bisogna considerare che i ristori della prima fase erano, senza offesa, irrisori e non consentivano certo la sostenibilità delle nostre attività”

Cosa significa in concreto?

“Ad esempio, per le bollette di energia elettrica e gas da aprile a giugno sono state sospesi i cosiddetti oneri di sistema, che poi sono la parte di tasse che viene pagata per ogni fattura e che ne rappresenta una fetta importante. Da luglio, però, li stiamo pagando e a noi arrivano ingiunzioni altissime pur avendo gli impianti chiusi o quasi”

Il ministro ha garantito 800 euro ai lavoratori del settore, spesso facendoli emergere dall’ombra

“Non sono state fatte valutazioni corrette e noi che viviamo di sport conosciamo i livelli economici del settore. Gli 800 euro sono una cifra alta rispetto normali compensi dei nostri collaboratori e non si è gestito al meglio il denaro a disposizione. Il sistema dei ristori è uno strumento che va utilizzato partendo dai numeri reali. Sia chiaro, la nostra non è una guerra a chi lavora per noi, ma un ragionamento di sistema. La realtà è che oggi ci sono società che faticano a pagare le spese correnti per sopravvivere e arrivare vive al momento in cui si potrà tornare a lavorare”.

© Riproduzione Riservata