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Camionisti no-vax: la febbre canadese

Camionisti no-vax: la febbre canadese

La protesta dei camionisti no-vax con i loro «Convogli per la libertà» al confine con gli Usa ha fatto scuola: altre organizzazioni americane vogliono ora marciare su Washington, mentre l’onda della rabbia, al grido di «Basta restrizioni anti Covid!» si allarga all’Australia e alla Nuova Zelanda, a Israele e alla Francia.


Online circolano messaggi criptati con consigli su logistica, raccolta fonti e supporto tecnico, mentre la mobilitazione sostenuta da influencer di estrema destra e politici conservatori guadagna l’attenzione dei gruppi suprematisti. La vastità della protesta dei camionisti no-vax che ha paralizzato per giorni il valico di frontiera più trafficato tra Canada e Stati Uniti ha trafitto i confini facendo scuola negli Usa, dove almeno tre organizzazioni nazionali e una costellazione di associazioni regionali stanno pianificando di partire alla volta di Washington DC all’inizio di marzo.

«Ciò che ci porta qui è l’unità, la solidarietà e una mentalità americana. E ovviamente abbiamo lamentele verso i nostri politici nella capitale» spiega Kip Coltrin, organizzatrice di un gruppo in partenza da Fresno (California) il 2 marzo e diretto a DC attraverso l’Interstate I-10. Anche un’altra organizzazione che si fa chiamare People’s Convoy, il convoglio della gente, progetta di partire dalla California nella prima settimana di marzo: il loro sforzo è sostenuto da Freedom Fighter Nation, un gruppo cospirazionista di estrema destra guidato dall’avvocato Leigh Dundas.

La natura frastagliata della protesta nella versione a stelle e strisce rende difficile determinare quante persone potrebbero aderire e le potenziali conseguenze, ma la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki ha fatto sapere che il dipartimento di Sicurezza interna sta monitorando la possibilità di un convoglio di mezzi pesanti diretto a Washington: «Stanno adottando tutte le misure necessarie per garantire che non fermino il commercio, i trasporti o interferiscano con il governo federale».

A fomentare il movimento ispirato dai camionisti canadesi che manifestano contro il governo di Justin Trudeau per l’introduzione dell’obbligo vaccinale è il fermo sostegno incassato da alcuni politici (e non) americani. I manifestanti hanno avuto il plauso dell’ex presidente Donald Trump, del governatore della Florida Ron de Santis, del senatore del Kentucky Rand Paul (secondo cui «sarebbe fantastico se intasassero» le città Usa). E poi, c’è il fondatore di Tesla Elon Musk.

La genesi della protesta risale al 28 gennaio, quando i camionisti canadesi hanno dato vita al Freedom convoy per dimostrare contro le restrizioni anti-Covid e l’obbligo vaccinale. Con il passare dei giorni, tuttavia, le rivendicazioni dei no-vax si sono allargate, assumendo le sembianze di una contestazione al sistema andata oltre le frontiere canadesi e creando «imbuti» in tutti i punti di confine.

Il primo a essere preso di mira è stato l’Ambassador Bridge, il più importante valico di frontiera con gli Usa che collega l’Ontario con Detroit, dove passa il 30% del commercio tra i due Paesi (transitano circa 40.000 persone e 323 milioni di dollari di beni al giorno). A causa del blocco, Toyota e Ford hanno annunciato la chiusura delle loro fabbriche in Ontario, mentre il gruppo Stellantis, che controlla Fiat Chrysler, ha parlato di ritardi nei suoi impianti. Nel giro di poco tempo la paralisi si è estesa ai valichi della provincia di Manitoba al confine con il Nord Dakota e in Alberta.

A ciò si è sommato l’assedio a Ottawa, invasa da autoarticolati e presidi di camionisti, che sta mettendo in difficoltà il sistema politico ed economico canadese e non solo. «La situazione è completamente fuori controllo perché sono i manifestanti a fare la legge» ha ammesso il sindaco della capitale Jim Watson. «Stiamo perdendo la battaglia. Dobbiamo riprenderci la nostra città».

All’apice della crisi il premier canadese Justin Trudeau ha parlato con il presidente americano Joe Biden assicurando che avrebbe sbrogliato la situazione in tempi stretti. «Le aziende e i lavoratori americani stanno risentendo seriamente» degli effetti del blocco dei camion al confine, ha avvertito la Casa Bianca sottolineando come «i due leader si siano detti d’accordo sul fatto che le azioni di singoli individui nel bloccare i trasporti e il commercio fra i due Paesi sta avendo un significativo impatto diretto sulle vite dei cittadini».

Nei giorni scorsi i valichi di frontiera con gli Stati Uniti sono stati quasi tutti sgomberati e l’Ambassador Bridge riaperto, ma nella capitale continua a regnare il caos: gli abitanti sono infuriati, la vita quotidiana, già messa a dura prova dalla pandemia, è ancora più complicata da strade bloccate e traffico congestionato. Tanto che Trudeau ha dichiarato lo stato d’emergenza nazionale per tentare di mettere fine alle proteste e uscire vincitore dalla prova più dura che il suo governo ha dovuto affrontare sinora.

La misura ha un solo precedente in tempo di pace, 50 anni fa: ne aveva fatto ricorso il padre del premier, Pierre Elliot Trudeau, nell’ottobre 1970, per inviare l’esercito in Québec dove il Fronte di Liberazione aveva rapito un attaché dell’ambasciata britannica e un ministro della provincia, Pierre Laporte, poi ritrovato morto. L’Emergencies Act – che necessita dell’approvazione del Parlamento – permette al governo di sospendere temporaneamente le libertà civili per ripristinare l’ordine pubblico, per esempio vietando i raduni pubblici o limitando i viaggi per o da aree specifiche.

E nel tentativo di recuperare una situazione che sembra gli sia sfuggita di mano, come accusano il partito conservatore e quello nazionalista, Trudeau ha anche minacciato il congelamento dei depositi bancari e la sospensione delle assicurazioni sui veicoli.
Provvedimenti «temporanei e mirati» ha spiegato «necessari a garantire la sicurezza del Paese e proteggere i posti di lavoro». Al contempo, il ministro della Salute Jean-Yves Duclos ha annunciato che dal 1° marzo per chi arriva in Canada non sarà più necessario un test molecolare, ma basterà un tampone rapido negativo.

Le province tuttavia continuano ad andare per conto loro verso un progressivo annullamento delle misure anti-virus. La prima è stata l’Ontario, la più danneggiata dalle proteste, dove il premier provinciale ha deciso che da inizio marzo saranno aboliti i pass vaccinali, scavalcando il governo centrale e ignorando l’appello di Trudeau a usare il pugno duro contro le «occupazioni illegali» dei «Convogli della libertà». A seguire, sono state Quebec, Alberta e Saskatchewan ad aver eliminato il pass sanitario.

Intanto, un’inchiesta della rete nazionale canadese Cbc rivela che oltre la metà dei fondi ai manifestanti è arrivata dagli Stati Uniti, per lo più da sostenitori di Trump, e prima di venire chiusa quando ci sono stati i primi arresti a Ottawa, la campagna di raccolta fondi su GoFundMe – partita dagli Usa – aveva raccolto 8 milioni di dollari da destinare al Freedom Convoy canadese e ad altre iniziative simili.

La protesta dei camionisti canadesi ricorda quella dei gilet gialli francesi nell’inverno 2018, e nonostante le ultime misure, l’onda d’urto appare ben più lunga dei confini geografici. In Nuova Zelanda il ciclone Dovi non ha fermato la protesta a Wellington contro le misure anti-Covid ispirata ai «Convogli della libertà» in Canada.

Episodi simili si sono verificati anche in Australia e in Israele: a Gerusalemme si sono creati ingorghi nella zona dei principali ministeri dove si sono radunati i manifestanti al grido di «Basta con le limitazioni, torniamo alla libertà». Ugualmente, diversi Paesi d’Europa sembrano avere preso ispirazione dalla mobilitazione canadese.

In Francia migliaia di oppositori alle restrizioni sanitarie, messisi in marcia da Bayonne e Nizza con l’obiettivo di «bloccare la capitale», si sono fermati alle porte di Parigi, dove la polizia aveva annunciato che avrebbe messo in atto un dispositivo specifico per impedire il blocco delle strade.

A Bruxelles, dov’era in arrivo nei giorni scorsi un Freedom Convoy, il sindaco Philippe Close ha deciso il divieto di manifestazioni anti-Covid in città in modo da impedire il blocco della regione di Bruxelles-Capitale. L’emergenza sanitaria va verso la conclusione. Ma quella sociale sembra solo all’inizio.

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