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Brexit è vittoria per Bojo e sconfitta per lo sciovinismo Ue

Brexit è vittoria per Bojo e sconfitta per lo sciovinismo Ue

La storia fornirà qualche indizio sull’interpretazione del Brexit deal: un segno che dall’Unione europea non si può davvero uscire fino in fondo senza un accordo commerciale oppure che il business costringe a trovare comunque un accordo indipendentemente dal conflitto politico. Mentre in futuro si capirà se sul fronte di Londra è stata una reazione al dirigismo tecnocratico europeo, all’immigrazione senza frontiere e alla diversità storico-culturale con il Continente oppure un espediente di successo per tenere unito il Regno dalle spinte indipendentiste alimentate da Bruxelles.


Se fosse una serie televisiva s’intitolerebbe Lo strano caso di Boris Johnson. Sceneggiato in cui il protagonista viene dato per spacciato ad ogni episodio, ma alla fine riesce sempre a sopravvivere e addirittura ad uscirne più forte. I travagli del giovane Johnson, un predestinato di agiata famiglia che esercitava le proprie doti di leadership già all’università di Oxford, iniziano con l’ascesa a Downing Street dell’amico-rivale, ben più assennato e pettinato, David Cameron nel 2010. Come ripiego, perché di questo parliamo quando si è un ambizioso esponente dell’upper class, Johnson riesce a farsi eleggere Sindaco di Londra e a diventare un volto conosciuto al resto del mondo con le Olimpiadi del 2012. Nel 2015 i Conservatori vincono ancora le elezioni, Cameron è confermato Primo Ministro, ma nel suo governo non c’è spazio per il biondo sindaco, che avrebbe volentieri preso una poltrona. Fiorivano di quei tempi i requiem per Boris, suonati da esperti e media per un ruolo da primo ministro che non ci sarebbe mai stato.

Deluso e mai domo, Johnson lavorava per allargare la propria base elettorale con interventi pirotecnici ai congressi dei Conservatori, libri bestseller sull’antica Roma e su Churchill e con posizioni sempre più ambigue sull’Unione Europea. Ed è proprio nella noia dell’ennesimo governo blu che Boris inventa la campagna del Leave, per fiuto degli umori popolari e per aprirsi una via allo scranno bramato fin dai tempi di Eton. Nel referendum sulla Brexit del 2016, come frontman del Leave ribaltava un risultato che pareva già scritto, defenestrando Cameron e lasciando nel caos paese e partito. Tra tradimenti di ex colleghi ed una leadership ingombrante, divisiva, invisa ai conservatori moderati Johnson viene dirottato verso il Foreign Office per lasciare lo studio di Downing Street alla Remainer Theresa May.

Ancora una volta, BoJo venne dato per finito dalla stampa nazionale ed internazionale. Tutti scommettevano, in questo caso con ragione, che la convivenza con May non sarebbe potuta durare e così è stato. Si dimetteva cinicamente da Ministro degli Esteri per pianificare l’ultimo assalto ad un partito scosso e ad un Primo Ministro che pretendeva di essere una copia molto sbiadita di Margaret Thatcher. Il cannoneggiamento alla May è un piano meticoloso che produce i suoi frutti nell’estate del 2019 e ribalta ancora le sempre più fallaci previsioni dei bookmakers politici. Incagliata nella legislazione sulla Brexit, appesa ad una maggioranza dipendente dagli unionisti nord irlandesi, legata ad un accordo per l’uscita dall’Ue che non soddisfa nessuno né di qua né al di là della Manica, il Primo Ministro si dimette. A quel punto, nessuno nel partito ha più numeri del risorto Johnson, che finalmente apre la porta del numero 10 di Downing Street. Tuttavia, il Parlamento recalcitra sulla possibilità del No Deal ventilata dal nuovo Primo Ministro e la maggioranza sfuma nel giro di due mesi. Ancora una volta, tutti considerano Johnson sull’orlo della bancarotta politica. Eppure, come leader dei Conservatori sigla un accordo occulto con il partito di pro-Brexit di Nigel Farage e stravince le elezioni oltre ogni previsione. Altro giro, altra resurrezione. Ottiene dal nuovo Parlamento il mandato a rinegoziare l’accordo siglato dalla May e si mette al lavoro con Bruxelles.


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Nella sceneggiatura non poteva mancare il colpo di scena: la pandemia. Johnson cerca di evitare il più a lungo possibile il lockdown, difende le posizioni del piccolo business che non vuole restrizioni, si ammala, finisce in ospedale, guarisce, diventa padre per la quinta volta, mette sotto chiave il Paese, approva e somministra il vaccino prima di tutti gli altri paesi europei. Torna al tavolo con la Commissione europea. Tra qualche rinvio e qualche difficoltà l’accordo viene ridefinito. Di fatto, più che un divorzio è un accordo di libero scambio che si sostituisce al precedente regime di mercato unico. Nel programma elettorale del 2019 dei Conservatori c’era scritto che entro il 2020 ci sarebbe stata una Brexit. Entro il 2020 ci sarà la Brexit, né soft né hard. E qui, per il momento, finisce la stagione della serie, con un Johnson saldamente alla guida del Paese e con la Brexit in porto. Comunque la si pensi su un personaggio che sembra davvero uscito da House of Cards, siamo indubbiamente di fronte ad un caso di successo politico, almeno dalla prospettiva dei Conservatori. È raro che un politico mantenga quanto promesso, ma il Primo Ministro più controverso degli ultimi quarant’anni ci è riuscito. Johnson ha realizzato i propri obiettivi politici. Senza le catastrofi finanziarie ed economiche invocate dallo sciovinismo europeista, e con buone possibilità di rimanere in linea con la crescita dei principali Paesi europei nei prossimi anni. Di fatto il Primo Ministro britannico ha reso anche un servizio all’Unione europea, imponendolo una prova di maturità. Anch’essa superata, al di là della stucchevole retorica sensazionalista e piagnona di questi anni, senza particolari sconvolgimenti. Un paese, senza moneta unica, con una finanza pubblica solida e con le strutture di un ex impero sia ben inteso, può dunque lasciare l’Ue senza particolari traumi per nessuno e con un patto di reciproca collaborazione. Eccellente anche il lavoro dei leader europei, che nella pratica politica non si sono fatti contagiare dall’isteria mediatica e accademica del mondo liberal-progressista, che avrebbe preferito uno scontro duro ed impietoso con un alleato che resta prezioso, anche se ha democraticamente scelto la via dell’auto governo e della sovranità del Parlamento.

Meglio accordarsi per continuare a scambiare merci e servizi che danneggiarsi inutilmente a vicenda. Anche perché senza i meccanismi della Citiy di Londra, come sanno bene nel mondo della finanza europea, non si può stare.

La storia fornirà qualche indizio sull’interpretazione del Brexit deal: un segno che dall’Unione europea non si può davvero uscire fino in fondo senza un accordo commerciale o, invece, che si può uscire senza grandi conseguenze politiche ed economiche oppure che nella nostra epoca, alla fine di tutto, il business costringe a trovare un accordo indipendentemente dalle pulsioni e dal conflitto politico. Probabilmente, una risposta equilibrata dovrà tenere conto di tutti e tre i fattori. Si capirà nel prossimo futuro se la Brexit politica, infine, è stata soltanto una reazione al dirigismo tecnocratico europeo, all’immigrazione senza frontiere e alla diversità storico-culturale con il Continente oppure anche un espediente di successo di una parte dell’establishment inglese per tenere unito il Regno dalle spinte indipendentiste (ed europeiste) di Scozia ed Irlanda del Nord alimentate da Bruxelles. Ad oggi comunque esistono soltanto due certezze: le resurrezioni politiche di Boris Johnson e le profezie infondate dello sciovinismo europeista.


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