Un’ostilità ideologica ha impedito per mesi di sostenere un settore cruciale dell’economia, che oggi conta 500 mila vetture invendute e solo tra due anni tornerà ai livelli pre-pandemia. Non basta: incombe la minaccia di una multa da 15 miliardi per i limiti europei di emissioni di CO2.
Una fila ininterrotta da Milano a Gibilterra: è questo lo spazio che occuperebbero le 500 mila automobili rimaste intrappolate nella crisi del Covid-19. Sono vetture destinate al mercato italiano, per l’80 per cento già acquistate dai concessionari e in attesa di essere vendute. Un numero enorme, che dà l’idea di quale disastro si sia abbattuto sull’industria dell’auto. E per uscirne, sostengono gli operatori del settore, occorrono non solo gli incentivi del governo, ma anche una riflessione a livello europeo sui limiti imposti alle case automobilistiche sulle emissioni di anidride carbonica, CO².
Secondo la società di consulenza AlixPartners, il mercato mondiale delle quattro ruote si contrarrà nel 2020 del 21 per cento e vedrà svanire qualcosa come 19 milioni di vetture, numero che salirà a 44 milioni da qui al 2022. Per le case questo significa perdere fino a 1.300 miliardi di dollari di ricavi e 220 miliardi di profitti lordi. Prendiamo il gruppo Fca: nel 2019 aveva venduto complessivamente 4,6 milioni di veicoli, di cui più della metà (2,5 milioni) in Nord America, 1,3 milioni in Europa e il resto soprattutto in America Latina. Bene, il gruppo guidato dall’amministratore delegato Mike Manley ha visto in aprile il mercato americano contrarsi del 50 per cento, quello europeo del 78, mentre le vendite in Italia sprofondavano del 97 per cento.
Di conseguenza il gruppo ha accusato nel primo trimestre una perdita di 1,7 miliardi, ha chiesto un prestito da 6,3 miliardi garantito dallo Stato e dovrà affrontare in salita le trattative per portare a termine la mega-fusione con la francese Psa, finita pure nel mirino dell’Antitrust europeo. Non sono solo i produttori a soffrire: in prima linea ci sono anche i concessionari, con stock da smaltire per 2-3 mesi. «Abbiamo costi fissi altissimi e temo che un 25-30 per cento dei concessionari sia a rischio di fallimento» avverte Adolfo De Stefani, presidente dell’associazione di categoria Federauto che rappresenta 1.500 imprese con oltre 120 mila collaboratori.
E poi ci sono i fornitori, duemila imprese con 50 miliardi di fatturato, che esportano in tutto il mondo. Complessivamente il settore automotive in Italia esprime ricavi da 335 miliardi di euro, pari al 19 per cento del Pil, e dà lavoro a 1,23 milioni di addetti. Nel primo trimestre dell’anno i livelli produttivi dell’intera filiera sono crollati del 21,6 per cento.
Da maggio la situazione sui mercati è un po’ migliorata, ma per gli analisti di AlixPartners il ritorno a volumi pre-crisi richiederà nel mondo più di cinque anni. Per quanto riguarda l’Italia, la società stima che il mercato quest’anno scenderà a quota 1,2 milioni di veicoli venduti contro i 2,1 milioni del 2019 (meno 43 per cento). Per il prossimo anno la previsione è di un mercato da 1,6 milioni di vetture e solo nel 2022 le vendite totali dovrebbero riavvicinarsi ai livelli pre-crisi con 1,8 milioni di auto immatricolate.
Di fronte a un quadro così drammatico, il governo per mesi ha guardato dall’altra parte e solo ora ha affrontato il tema dei nuovi incentivi alla rottamazione, nonostante l’ostilità del Movimento 5 Stelle. Sicuramente rivedere lo schema di incentivi previsti dallo Stato per chi sostituisce la propria auto con una meno inquinante sarà fondamentale per sostenere il mercato: il meccanismo introdotto nel 2019 dal governo italiano prevede un bonus da 1.500 fino a 6 mila euro per chi acquista una vettura che emette meno di 70 grammi di CO² per chilometro, a seconda che si rottami o meno un’auto appartenente alle categorie fino a Euro 3. Di fatto si incentiva solo l’acquisto di auto elettriche o ibride plug-in, cioè che si ricaricano collegandosi alla rete elettrica. «Come Maria Antonietta, abbiamo dato brioches al popolo che non ha più pane» commenta Adolfo De Stefani di Federauto, titolare di una catena di concessionarie Mercedes in Emilia Romagna. «Le vetture elettriche e le plug-in sono costose, le comprano le persone abbienti: abbiamo clienti che le prendono come terza auto».
Così il governo ha dato soldi ai benestanti invece di aiutare chi ha vetture vecchie e inquinanti: chi possiede da una Euro 3 in giù ha una capacità di spesa di circa 8 mila euro e non può certo permettersi berline da 30 mila euro. In Italia le elettriche e le ibride plug-in hanno rappresentato nel 2019 appena l’un per cento delle vendite e il 2,6 per cento nei primi cinque mesi di quest’anno.
È giusto spingere verso una mobilità elettrica, ma se si vuole abbattere rapidamente le emissioni di CO² e di biossidi di azoto occorre modernizzare il parco circolante italiano, che per il 32,5 per cento è ancora costituito da auto ante Euro 4 e per il 57 per cento da vetture con oltre 10 anni di anzianità. Bisognerebbe anche sostenere le auto a metano, dove l’Italia vanta una storica leadership.
Ma ampliare la platea delle auto incentivate, comprendendo anche le motorizzazioni tradizionali Euro 6 di ultima generazione sotto i 95 grammi di emissioni di CO², non basterebbe, dicono gli operatori del settore: Federauto per esempio insiste per la detraibilità dell’Iva delle spese relative alle autovetture per imprenditori e professionisti. «L’Italia è l’unico Paese europeo in cui l’Iva non è completamente detraibile per aziende e professionisti, mettendo le imprese italiane in una posizione di difficoltà oggettiva rispetto ai competitor degli altri Paesi europei» sostiene l’associazione.
Mentre il governo italiano, diviso tra ambientalisti pro-elettrico e pragmatici pro-Euro 6, cerca buon ultimo di aiutare un settore-chiave per l’economia dopo che Francia e Germania hanno varato piani miliardari per l’industria dell’auto, in Europa vengono messi in discussione i limiti alle emissioni di CO².
Attualmente è previsto che le auto in vendita dal 2021 non debbano superare in media i 95 grammi di CO² per chilometro. Un obiettivo già difficile da raggiungere in condizioni normali, ma che adesso, con i bilanci squassati dalla crisi e la domanda a picco, è diventato una missione quasi impossibile. Negli anni passati i produttori si sono dati da fare per ridurre le emissioni e hanno investito moltissimo nelle vetture elettriche per soddisfare i target imposti non solo in Europa, ma anche in Usa e in Asia.
Così, dal 2010 al 2016 le emissioni medie delle flotte di auto europee sono diminuite da 136 a 118 grammi di CO² per chilometro. Poi però l’effetto combinato della guerra al diesel (consumano poco ma emettono più biossidi di azoto) e della preferenza dei consumatori per i Suv (che per la bassa aerodinamicità e il maggior peso consumano di più), le emissioni di CO² sono risalite nel 2019 a 120 grammi. Il risultato è che le case automobilistiche potrebbero trovarsi a pagare multe per circa 15 miliardi di euro. «Bisogna far slittare di due anni i nuovi limiti» sostiene Paolo Scudieri, presidente dell’Anfia, l’Associazione dell’automotive italiano. «Non farlo significa togliere risorse che le imprese potrebbero destinare allo sviluppo delle tecnologie meno inquinanti».
Una linea non condivisa da tutti: Massimiliano Di Silvestre, presidente e ceo di Bmw Italia, dall’alto dei risultati ottenuti dalla casa tedesca sul nostro mercato (meno 31 per cento di vendite in maggio contro il meno 49 per cento di tutti i marchi) non si schiera contro i limiti europei: «Siamo partiti prima di tutti con l’elettrificazione ed entro il 2023 lanceremo 25 modelli di cui 12 elettrici e gli altri ibridi. Disporre di una gamma sostenibile è uno dei tre fattori che considero necessari per uscire da questa situazione: sostenere il settore con incentivi anche per gli Euro 6; cambiare la nostra relazione con il cliente trasformando l’acquisto di un’auto in un evento emozionante; e, appunto, puntare sulla sostenibilità».
