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I silenzi di Biden sulla linea Usa verso la Libia

I silenzi di Biden sulla linea Usa verso la Libia

L’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden pone un interrogativo non poco pressante per l’Italia: quale sarà la linea che il nuovo presidente americano sceglierà di seguire sulla Libia? Il Paese è ancora di fatto in preda al caos: Fayez al Serraj e Khalifa Haftar continuano a fronteggiarsi, mentre pressioni e ingerenze internazionali aumentano da entrambe le parti.


Durante i quattro anni della presidenza Trump, non è che gli Stati Uniti si siano tra l’altro granché attivati su tale fronte. E questo per una serie di ragioni. Innanzitutto non trascuriamo che il presidente americano uscente si sia sempre detto profondamente restio a farsi coinvolgere in conflitti e dinamiche spinose in Medio Oriente e Nord Africa. Inoltre, più nello specifico, Trump – sul dossier libico – si è per così dire trovato tra due fuochi. Da una parte, gli Stati Uniti avevano appoggiato Serraj ai tempi di Barack Obama, dall’altra – nella sua politica mediorientale di contrasto all’Islam politico – l’attuale inquilino della Casa Bianca aveva inaugurato una forte convergenza con Egitto e Arabia Saudita: due Stati che hanno da sempre appoggiato Haftar contro Serraj. Un Serraj – ricordiamolo – vicino alla Fratellanza Musulmana e spalleggiato da circa un anno dalla Turchia di Erdogan. Quella stessa Turchia che finanzia proprio la Fratellanza Musulmana e che – anche per questo – è vista come il fumo negli occhi da Riad e dal Cairo. In tal senso, Trump – in considerazione di accordi precedentemente presi dagli Stati Uniti – non ha ritirato l’appoggio americano a Serraj, ma si è al contempo fondamentalmente disinteressato al suo destino, proprio per mantenere in piedi l’asse con Egitto e Arabia Saudita.

L’incognita adesso riguarda tuttavia Biden. Ricordiamo infatti che l’attuale presidente americano in pectore sia stato vicepresidente in un’amministrazione – quella di Obama – che nel 2011 intervenne militarmente contro Muammar Gheddafi, contribuendo così significativamente al caos che oggi investe la Libia. Ricordiamo tra l’altro che proprio Obama fosse all’epoca un sostenitore delle “primavere arabe”, che cercò indirettamente di promuovere anche in Tunisia ed Egitto. Va riconosciuto che all’epoca Biden si oppose all’intervento in Libia, il quale fu invece con successo caldeggiato dall’allora segretario di Stato americano, Hillary Clinton. Tuttavia questo non basta a rassicurarci sul fatto che il presidente entrante si attiverà come forza stabilizzante nello scacchiere libico né che – più in generale – si asterrà sicuramente da tentativi di esportare la democrazia in Medio Oriente e Nord Africa. Un fattore, questo, che possiamo comprendere sotto svariati punti di vista. Innanzitutto, il consigliere per la sicurezza nazionale che Biden ha intenzione di nominare è Jake Sullivan: stretto collaboratore della Clinton quando era al vertice di Foggy Bottom, fu all’epoca non a caso un sostenitore dell’intervento bellico contro Gheddafi. Lo stesso Tony Blinken – scelto dal presidente entrante come prossimo segretario di Stato – fu tra i fautori di quell’azione militare.

Insomma, la dottrina dell’interventismo liberal sembra fortemente presente nella nascente amministrazione americana: quell’interventismo liberal che è alla radice dell’attuale instabilità in Siria e nella stessa Libia. D’altronde, l’auspicio che Biden possa contribuire alla diffusione della democrazia in Medio Oriente e Nord Africa proviene da svariati settori. Basti pensare che, lo scorso 18 dicembre, Bloomberg News abbia pubblicato un editoriale dal titolo: “Come Biden può sostenere una nuova primavera araba”. Che il presidente entrante possa agire in una tale direzione è del resto reso plausibile anche dalla retorica da lui tenuta nel corso dell’ultima campagna elettorale, quando ha ripetutamente accusato Trump di intrattenere legami troppo stretti con i regimi autoritari. Una linea che può rivelarsi problematica sotto due aspetti. Innanzitutto ricordiamo che l’amministrazione Obama abbia avviato processi di distensione con Cuba e l’Iran (due Stati non esattamente in linea con gli standard democratici). In secondo luogo, quel tipo di retorica fu lo stesso che proprio Obama usò per giustificare le cosiddette “primavere arabe”: elemento che in molti casi finì o col produrre il caos o col favorire la presa di potere da parte di gruppi islamisti per via democratica (si pensi al caso dei Fratelli Musulmani in Egitto).

Infine, bisogna fare attenzione ai rapporti geopolitici. Non è ancora del tutto chiaro in che modo Biden si comporterà nei confronti della Turchia. L’ex segretario alla Difesa americano, Robert Gates, ha recentemente esortato il presidente entrante ad assumere la linea dura nei confronti di Ankara, a causa delle sempre maggiore vicinanza di quest’ultima a Mosca. Il punto è che, se vorrà realmente cercare di rompere l’asse tra Russia e Turchia, Biden dovrà avviare un processo di convergenza verso l’una o verso l’altra. E, allo stato attuale, è ben difficile che questa convergenza possa essere portata avanti nei confronti di Mosca, vista la ferrea avversione storicamente nutrita dal Partito Democratico statunitense per Vladimir Putin. Non è quindi affatto escludibile che Biden possa alla fine scegliere di giocare di sponda con Erdogan: il che avrebbe delle evidenti ripercussioni anche sulla questione libica, visto che – come sopra ricordato – il Sultano appoggia Serraj contro Haftar. Un simile (e probabile) scenario non sarebbe necessariamente una buona notizia per l’Italia. È pur vero che Roma sostiene il governo di Tripoli. Ciononostante un rafforzamento di Erdogan in Libia non farebbe che comportare un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia, oltre che la presenza – alle porte del nostro Paese – di un attore aggressivo che non si è mai fatto scrupolo di far leva sul ricatto migratorio per ottenere i propri obiettivi. Scenari quindi non esattamente rosei si profilano al nostro orizzonte.

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