Dalla frase infelice contro Putin, all’attacco in Siria, al record di migranti, in particolare minori, accampati al confine tra Messico ed Usa e bloccati, alle sparatorie che proseguono in varie parti del Paese. In pochi mesi Biden ha già dimostrato di aver fatto peggio del suo tanto odiato predecessore, Donald Trump.
Sarà che l’enfasi retorica con cui era stata salutata fosse “lievemente” eccessiva. Fatto sta che, ad oggi, la presidenza di Joe Biden sta riscontrando non poche difficoltà. Se sul piano della campagna vaccinale va riconosciuto alla Casa Bianca di star conseguendo dei buoni risultati, è su altri (delicati) fronti che il nuovo presidente sta mostrando forti limiti.
Cominciamo dalla gestione dell’immigrazione. Questo fu, in campagna elettorale, uno dei temi caldi, che Biden decise di cavalcare severamente contro Trump, colpevole – a suo dire – di aver condotto politiche migratorie disumane e inefficaci. Ebbene, a oltre due mesi dall’insediamento, il nuovo inquilino della Casa Bianca si sta trovando ad affrontare (finora con scarsi risultati) una crisi migratoria al confine con il Messico. A partire dallo scorso gennaio, gli arrivi di immigrati irregolari ha subìto un’impennata. Secondo quanto riferito da Reuters, gli agenti statunitensi di frontiera sono arrivati ad arrestare quasi 100.000 migranti al confine a febbraio (circa 22.000 in più rispetto al mese precedente). Tutto questo, mentre le strutture di accoglienza stanno ormai letteralmente traboccando. In particolare, un problema non poco grave è il drastico incremento – sempre a partire dallo scorso gennaio – dell’arrivo di minorenni: al momento, secondo Cnn, sarebbero complessivamente circa 14.000 quelli collocati nelle strutture al confine.
La situazione è talmente disastrosa che, come rivelato di recente dal sito Axios, il Dipartimento della Salute ha abolito, per i centri di accoglienza, i limiti in termini di capienza (limiti, ricordiamolo, originariamente introdotti per evitare la diffusione del Covid-19). Sempre Axios ha pubblicato in esclusiva nelle scorse ore delle foto (fornite dal deputato dem Henry Cuellar) che mostrano il grado elevato di affollamento presente nel cento texano di Donna. In tutto questo, si assiste anche a qualche ragguardevole paradosso. L’amministrazione Biden ha innanzitutto negato alla stampa di accedere a queste strutture: un divieto che, ai tempi di Trump, non esisteva. In secondo luogo, Biden ha anche riaperto uno dei controversi centri di accoglienza per minorenni (quello di Carrizo Springs, in Texas) che il predecessore aveva chiuso, tra le polemiche, nel 2019. Ricordiamo, per inciso, che Trump – in campagna elettorale – fu accusato dall’ex first lady, Michelle Obama, di rinchiudere i bambini nelle “gabbie”. Ecco: quelle stesse “gabbie” adesso sono state riaperte.
L’amministrazione si difende dicendo che deve gestire un’impennata di arrivi, per di più nel mezzo di una pandemia. E’ vero. Sennonché la pandemia c’era anche ai tempi della campagna elettorale e Biden si sta di fatto rimangiando varie promesse: dalla maggiore trasparenza con la stampa alla netta rottura con le politiche del predecessore (soprattutto in riferimento alla detenzione dei minorenni). Del resto, ci sarebbe anche da chiedersi per quale ragione, proprio da gennaio scorso, si sia registrata questa impennata di arrivi. La Casa Bianca cita i disastri naturali e la violenza negli Stati dell’America Centrale. Può essere sicuramente una spiegazione. Ma può anche darsi che questo aumento dei flussi sia stato alimentato da una retorica elettorale, quella di Biden, semplicisticamente aperturista in materia migratoria. Una retorica che ha subordinato un problema complesso alle esigenze del marketing politico. Sarà un caso, ma – appena una settimana fa – il presidente ha esplicitamente esortato gli immigrati a non venire negli Stati Uniti.
La politica estera è un altro fronte rispetto a cui la Casa Bianca sta pagando le conseguenze di una campagna elettorale dalle strategie non poco spregiudicate. Per mesi, i democratici hanno attaccato Trump, sostenendo che negli Stati Uniti vigesse una situazione di “razzismo sistemico”. Una tesi che, già all’epoca in cui fu avanzata, risultava molto discutibile. Un conto è infatti giustamente riconoscere e stigmatizzare singoli (e gravi) episodi di razzismo: episodi che ancora si registrano nella società americana. Un altro conto è parlare invece di “sistematicità”, quasi che, oggi, l’intera Unione sia di fatto equiparabile all’Alabama degli anni ’50. Un altro caso di marketing politico che si sta ripercuotendo contro la nuova amministrazione. Durante i tesissimi colloqui sino-americani tenutisi la settimana scorsa ad Anchorage (in Alaska), la delegazione cinese ha respinto le (fondate) critiche del segretario di Stato americano Tony Blinken sui diritti umani, tirando – guarda caso – in ballo la stessa retorica sul razzismo sistemico cavalcata enfaticamente dai democratici nell’ultima campagna elettorale. Essere spregiudicati in politica interna non può del resto non avere delle ripercussioni in politica estera.
Una politica estera, quella di Biden, che – andando al di là dello spinoso dossier cinese – si sta facendo sempre più foriera di instabilità. Basti pensare alla crisi, tutt’ora in corso, tra Stati Uniti e Russia, dopo che il presidente americano ha concordato nel definire Vladimir Putin un “assassino”. Una tesi diplomaticamente dirompente, che non è ancora chiaro se sia frutto di un lapsus o di una strategia deliberata. Il punto, su questa questione, non è il giudizio che si può avere su Putin quanto, semmai, le conseguenze geopolitiche di una simile affermazione. Anche perché una postura tanto aggressiva nei confronti della Russia rischia di produrre degli effetti non poco problematici. In primo luogo, c’è il pericolo di spingere sempre più Mosca tra le braccia di Pechino: uno scenario che aumenterebbe indirettamente l’influenza politico-economica cinese sul Vecchio Continente e comprometterebbe la strategia di contenimento che la stessa Washington sta conducendo contro il Dragone.
In secondo luogo, una simile pressione rischia di gettare la stessa Russia nel caos, secondo un modello – quello delle cosiddette “primavere arabe” – che abbiamo già visto in atto in Medio Oriente e in Nord Africa, ai tempi dell’amministrazione Obama (di cui Biden era vicepresidente). D’altronde, l’attuale linea americana sembra non capire che, nonostante si tratti di un leader indubbiamente controverso, Putin non rappresenti, in seno alla politica e all’establishment russi, la figura di orientamento maggiormente antioccidentale. Anzi, in un certo senso il capo del Cremlino ha in questi anni cercato di controbilanciare internamente la pressione dei falchi nazionalisti. Senza poi dimenticare che lo stesso Zar tema – e non da oggi – l’abbraccio soffocante con Xi Jinping (del resto, Cina e Russia registrano vari fronti di tensione: dalla politica artica alla diplomazia vaccinale). Si tratta di un discorso complesso, che tuttavia Washington dovrebbe tenere ben presente, soprattutto nell’ottica del confronto con la Cina. Perché, nuovamente, questo tipo di postura rischia paradossalmente di avvantaggiare Pechino, anziché indebolirla.
Qualcuno potrebbe obiettare che Biden è alla Casa Bianca soltanto da due mesi: un tempo troppo breve per formulare giudizi. Non è così. Innanzitutto va ricordato che, con Trump, la pressione della stampa iniziò a scatenarsi da subito dopo la vittoria, quindi da ben prima che addirittura si insediasse. In secondo luogo, come abbiamo visto, il problema qui consiste nel notare come una campagna elettorale spregiudicata – quella dei democratici – abbia da lontano preparato dei nodi che stanno venendo adesso drammaticamente al pettine. Perché il problema è proprio questo: Trump veniva spesso additato di essere un irresponsabile (e, sia chiaro, talvolta prestava il fianco a simili accuse). Tuttavia, quando si tratta dei suoi avversari, l’irresponsabilità (anche manifesta) viene assai spesso sottaciuta.
Ed ecco quali sono gli effetti della politicizzazione, del ridurre tutto a battaglia elettorale, anche le questioni complesse come l’immigrazione, la politica estera o mali endemici della società americana come le sparatorie di massa. Nelle scorse ore, se ne è verificata una in Colorado, con dieci persone che sono state uccise. Appena pochi giorni prima se ne era registrata un’altra, ad Atlanta, con otto vittime. Il problema delle sparatorie è annoso e contempla un trend che ha iniziato a farsi sempre più preoccupante soprattutto a partire dai primi anni 2000. Quindi si tratta di una questione che prescinde dal colore politico della Casa Bianca. Ma che, ciononostante, qualcuno è riuscito a trascinare nelle beghe elettorali. Era l’agosto del 2019 quando l’allora candidato alla nomination democratica, Beto O’ Rourke, sostenne che Trump fosse il responsabile morale della strage di El Paso. Se questa è politica…