- Nonostante i problemi di immagine e di sostanza della Cina in seguito alla pandemia e al pugno di ferro su Hong Kong, Beppe Grillo continua a essere fedele punto di riferimento della superpotenza asiatica. Che intanto, tra sponde politiche, battaglie tecnologiche sul 5G e acquisizioni di imprese, si muove in Italia come in una facile terra di espansione.
- Cina – Usa: La nuova guerra fredda
- Cina – Usa: Il potere delle armi
Chissà se quel che resta dell’elettorato a Cinque stelle è davvero convinto che avere come alleati gli Stati Uniti o la Cina sia davvero la stessa cosa. Anzi, che Pechino sia anche meglio perché con i cinesi possiamo fare più affari. Sarebbe un bel tema per uno dei famosi referendum sulla piattaforma Rousseau. Perché fa davvero impressione vedere Beppe Grillo schierato, di fatto, con la polizia filo-Pechino che a Hong Kong spara sugli studenti.
Oppure scoprire che il suo glorioso blog beppegrillo.it si è ridotto ormai a un foglio virtuale della propaganda del Pcc, il Partito comunista cinese, con lunghe articolesse che inneggiano al «grande impegno» contro il Covid-19 dei colossi del Dragone, a cominciare da Huawei, Zte e tutti gli altri gruppi para-pubblici dei quali M5s è ormai, di fatto, ambasciatore in Italia. E chissà che cosa direbbe il popolo grillino, così geloso della propria democrazia online, se sapesse che le autorità cinesi hanno diritto, per legge, a chiedere qualunque dato sensibile alle sue aziende, comprese le informazioni su chi compra un modem Zte o naviga grazie a Huawei dall’altra parte del mondo.
Ed è proprio sui fornitori tecnologici della rete 5G che si sta consumando l’ennesimo balletto italiano. Il governo Conte non trova imbarazzante partecipare alle esercitazioni della Nato e, al tempo stesso, rifiutarsi di bloccare per legge, come hanno fatto Washington e Londra, le forniture cinesi. Con un rischio più che annunciato per l’incolumità di tutti, perché la Casa Bianca ha già avvertito che chi si affida alla superpotenza asiatica per le infrastrutture di rete verrà tagliato fuori dai flussi di notizie dell’intelligence. Detta brutalmente, significa che in futuro, se in qualche centro islamico si preparasse un attentato al Duomo di Milano, ce lo dovremo scoprire da soli. O chiedere ai nuovi amici di Pechino.
Premier in barile. Il calcolo che ha fatto il governo di Giuseppi è furbo, ma di breve respiro: aspettare la caduta di Donald Trump alle elezioni di novembre. Nel frattempo è arrivata la retromarcia di Luigi Di Maio, che come ministro degli Esteri, da qualche mese tenta di prendere le distanze dalla Cina e da Huawei, dopo che nel Conte I ne è stato un grande fan e ancora a novembre si era precipitato a Shanghai a fare la guest star occidentale all’Expo di Xi Jinping. Conte è stato più accorto e non ha avuto bisogno di riposizionarsi, ma di fronte alle pressioni americane è di gomma. Nonostante abbia tenuto per sé le deleghe ai servizi segreti e legga tutti i report allarmati su Huawei e compagnia cablante, l’avvocato devoto a Padre Pio dorme sonni tranquilli. Eppure anche il rapporto che il Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi, gli ha inviato prima di Natale, condivide la linea di Washington sui rischi di spionaggio cinese. Ma Conte, Di Maio e il ministro dello Sviluppo economico, il pentastellato Stefano Patuanelli, rispondono che basta un giro di vite sul «golden power», ovvero la possibilità, per il governo, di intervenire su singole operazioni in settori strategici per bloccare partnership e scalate sgradite.
Il problema non è Trump. Ma la battaglia tra Usa e Cina su Huawei è destinata a salire di tono. Il 18 agosto, in un’intervista televisiva con Fox News, Trump non ha usato giri di parole: «Huawei ci spia, non vogliamo la sua tecnologia». Poi ha ribadito il messaggio agli alleati dubbiosi: «Non condivideremo le nostre informazioni d’intelligence con nessun Paese che usi Huawei, anzi, con Spywei». Il presidente del Copasir, il leghista Raffaele Volpi, ne ha approfittato per provare a stanare una volta di più Conte e Di Maio e ha chiesto che «Il governo spieghi che intende fare con Huawei». Ovviamente, nessuno gli ha risposto perché la strategia dell’esecutivo è semplice: fino alle elezioni americane, meglio non fare nulla di ufficiale e suggerire in privato ai gruppi telefonici che operano in Italia di mettere in freezer le commesse con i cinesi. Quindi, lo stop a Huawei è arrivato, in queste settimane, da Tim e Vodafone, mentre Tre Wind, che è controllata da un gruppo di Hong Kong, ci sta pensando ma alla fine si adeguerà.
Ovviamente si tratta solo di bocciature «per motivi tecnologici» o commerciali. Lo spionaggio non c’entra, per carità. E Palazzo Chigi neppure, che sennò il compagno Grillo chi lo sente. Se Trump vincerà un secondo mandato, si farà sempre a tempo a fare una legge anti-Spywei, come ha fatto anche il Regno Unito a giugno. Se invece vinceranno i democratici, si riapre ai cinesi e tanti saluti alle ossessioni di The Donald.
Peccato che con Joe Biden alla Casa Bianca cambieranno i toni, magari, ma non la sostanza. E i bandi contro le tecnologie cinesi sono passati praticamente all’unanimità, con i democratici che hanno votato insieme ai repubblicani contro «Il Grande Orecchio» di Pechino.
Diventare come la Serbia? E invece, per capire che ormai la situazione si sta polarizzando in modo inarrestabile, basterebbe che il governo guardasse con attenzione almeno ai Balcani, area sulla quale un tempo avevamo una certa influenza. Nei giorni scorsi la Serbia ha annunciato una commessa da 150 milioni di euro a Huawei sulla rete 5G. Un contratto che segue di pochi mesi un altro bando vinto dal colosso cinese per la realizzazione di una rete di telesorveglianza da 1.100 telecamere in tutta Belgrado. Senza contare il fatto che sempre i tecnici del colosso cinese stanno aiutando le autorità serbe a dotarsi di un software per il riconoscimento facciale e il presidente Alexsander Vucic ha definito Xi «un fratello». Gli Stati Uniti hanno risposto intensificando il pressing sulla Slovenia, che dopo Ferragosto ha firmato una dichiarazione congiunta sulla sicurezza del 5G in chiave anti-cinese, già siglata da Repubblica Ceca, Polonia. Romania, Lituania ed Estonia. Se Washington la sottoponesse anche all’Italia, Beppe Grillo farebbe cadere il governo?
Amicizia a senso unico. Il nostro Paese è stato il più entusiasta, in Europa, di fronte al programma di espansione economica (cinese) chiamato «Nuova Via della Seta». E l’Italia è stata la prima nazione del G7 a firmare l’accordo con Pechino, a marzo dello scorso anno. A livello internazionale, questa mossa non è vista benissimo. Un esempio è stata la trattativa sul Recovery Fund con Bruxelles: quando i «Frugali» avevano chiuso la porta alle richieste italiane, sull’inglese Telegraph è uscito un editoriale assolutamente benevolo, dal titolo «Tradita dall’Ue, l’Italia si rivolge alla Cina» (24 giugno), in cui si metteva in guardia l’Europa dal rischio di «regalare» la Penisola a Pechino. In sostanza, però, ci hanno trattato come l’Africa, che per ignoranza, bisogno e voracità delle sue classi dirigenti, ormai parla cinese.
Ogni volta che l’Italia fa affari con Pechino, si sbandierano cifre che poi è difficile verificare. Negli ultimi vent’anni si è spesso favoleggiato su acquisti di Btp. Ma se si guarda la composizione del debito italiano, si scopre che nel 2011 i cinesi ne detenevano il 4 per cento, mentre negli ultimi cinque anni hanno cominciato a vendere titoli e oggi, secondo gli ultimi dati di Bankitalia, sono ben sotto il 2 per cento. Un paese isolazionista come il Giappone, per esempio, ha il 5 per cento del debito italiano e perfino le Cayman (con il 2 per cento) hanno più Bot dei cinesi. Del resto è dal 2017 che gli investimenti diretti della Cina in Europa sono in netto calo. Uno studio dello scorso anno del Rhodhium Group e del Mercator Institute for China Studies ha dimostrato che dal 2000 al 2018 l’Italia ha visto arrivare investimenti per 15,3 miliardi dalla Cina, piazzandosi al terzo posto in Europa, dopo Germania (22,2 miliardi) e Gran Bretagna (47 miliardi). Ma negli ultimi cinque anni i cinesi hanno puntato sempre meno su di noi, scendendo a 2,5 miliardi per il biennio 2017-2018. Insomma, forse converrebbe vendersi alle Cayman.
Importazioni decuplicate. Per ironia della sorte, mentre Beppe Grillo e il suo Movimento occupavano il Parlamento e salivano al potere strizzando l’occhio alla Cina, da Pechino riducevano drasticamente gli investimenti in Italia. Come se Xi Jinping avesse trovato il modo di risparmiare sull’attività di lobby, un tempo affidata principalmente a Romano Prodi. Il quale oggi tace di fronte a Washington perché non si vuole giocare il Quirinale una seconda volta.
Prodi però è il papà delle privatizzazioni e in questi anni le acquisizioni del Dragone più famose sono state quella della genovese Esaote (diagnostica medica), l’ingresso in Pirelli tramite ChemChina e in Ansaldo Energia con Shanghai Electric, oltre all’acquisto del 35 per cento di Cdp Reti per 2,8 miliardi e alle mosse sui porti di Genova e Trieste. Se però si guarda il rapporto tra Italia e Cina dal lato delle merci, è facile capire chi ha beneficiato del riconoscimento della Cina da parte del Wto. Secondo Eurostat, nel 1996 l’Italia importava da Pechino beni per circa 3 miliardi, che sono cresciuti fino ai 31 miliardi del 2018. Le esportazioni italiane in Cina, invece, sono passate dai 2,2 miliardi del 1996 a 9,5 del 2018. Significa che mentre l’export tricolore cresceva di quattro volte e mezzo, quello cinese in Italia è decuplicato. Chi ha usato chi, in questi anni di propaganda?
In visita all’ambasciatore. Al netto di ogni discussione sui diritti civili e la democrazia, resta da capire che cosa leghi Beppe Grillo a Pechino con tanta convinzione. Le visite del comico genovese all’ambasciata cinese di Roma, mai nascoste, ogni volta scatenano polemiche e interrogazioni parlamentari da parte della Lega e di Fratelli d’Italia.
La Casaleggio e Associati a novembre dello scorso anno ha organizzato un forum per le imprese italiane sull’intelligenza artificiale, il cui ospite d’onore, naturalmente, era Thomas Miao, amministratore delegato di Huawei in Italia. E città a guida grillina come Torino e Roma sono state in prima linea nell’accettare partnership cinesi.
Ma dove si coglie senza troppi veli il grande amore per Pechino è sul blog di Grillo. In piena quarantena, sono comparsi lunghi post con titoli da tazebao come Cina-Italia, un destino condiviso (12 marzo), in cui si sosteneva che «La risposta cinese all’epidemia è stata una lezione, per rapidità ed efficacia». Non sono mancati elogi sperticati ai grandi gruppi cinesi («Stanno facendo sforzi incredibili») che si sono tanto spesi, in Cina e nel mondo, per alleviare le sofferenze dei popoli per il coronavirus (25 febbraio). E su Hong Kong il blog del comico ligure si è superato. Il problema dell’ex colonia britannica è una mera «questione interna cinese», dalla quale dobbiamo stare tutti fuori. E la rivolta degli studenti? Grillo ha emesso sentenza già a gennaio: «Anche a Hong Kong sanno che il diritto internazionale è dalla parte di Pechino». Amen.
Affari d’oro. Certo, trattare con i cinesi non è facile. Forse il governo di Giuseppi e Beppone dovrebbe affidarsi all’unico italiano che li ha messi nel sacco, Marco Tronchetti Provera. Nel marzo 2015, il manager milanese ha venduto la maggioranza della Pirelli, conservandone la guida, al colosso pubblico ChemChina. Da allora, in Borsa, il valore delle azioni è passato da 15 euro agli attuali 3,7. Dopo le coraggiose battaglie fatte in Telecom Italia proprio ai tempi di Tronchetti, vedremo Beppe Grillo strepitare alle prossime assemblee della Pirelli?
Cina – Usa: La nuova guerra fredda

Le accuse americane sulle responsabilità di Pechino per la pandemia hanno aggravato il confronto tra le due superpotenze: dall’economia agli scambi commerciali, dalla supremazia militare a quella tecnologica.
di Maurizio Tortorella
Separate da poche miglia, minacciose portaerei e navi d’assalto veloci incrociano pericolosamente nel Mar cinese meridionale. Jet militari bucano le nuvole ai confini dello spazio aereo di Taiwan, oppure sfrecciano sul Pacifico a meno di 100 chilometri da Shanghai.
E mentre sullo sfondo s’innalza il frastuono delle due macchine militari, Pechino e Washington lanciano proclami e avvertimenti sempre più bellicosi. Altro che la «Guerra commerciale» dichiarata da Donald Trump a Xi Jinping con i primi dazi sull’acciaio nel marzo 2018. L’estate 2020 verrà ricordata per la «Guerra fredda» tra Stati Uniti e Cina. Come accadeva nel secolo scorso, i due governi sono arrivati perfino a ordinare la reciproca chiusura di qualche rappresentanza diplomatica, con tanto di espulsione di funzionari, accusati di spionaggio, e frettolosi roghi di documenti riservati: il 22 luglio hanno dovuto fare le valigie i cinesi di stanza a Houston, in Texas, e quattro giorni dopo è toccato agli americani del consolato di Chengdu, nella centralissima regione del Sichuan.
Spesso Pechino usa la formula degli «esperti» per dire quel che pensa senza esporsi politicamente. L’esperto di turno è stato Wu Shicun, il presidente dell’Istituto nazionale di studi sul Mar cinese meridionale, che è stato «autorizzato» a riferire le sue preoccupazioni al quotidiano South China Morning Post, vicino al regime: «Il 60 per cento della flotta Usa è nel Pacifico» ha detto «e il rischio di un conflitto militare con gli americani non è mai stato così alto».
La competizione per la supremazia globale tra Cina e Stati Uniti aveva subìto una forte accelerazione all’avvio della presidenza Trump, quattro anni fa. Ma a incattivire il conflitto in maniera improvvisa e forse irreversibile è stato il Covid-19, che allo scoppio della pandemia, tra febbraio e marzo, il presidente americano ha battezzato «the chinese virus», il morbo cinese, e ora ha preso a definire «la maledizione di Pechino».
Sarà difficile riuscire a dimostrare che il virus è stato deliberatamente diffuso dai laboratori di Wuhan: forse quel sospetto resterà per sempre appeso alla Storia. Ma intanto ha brutalmente deteriorato i rapporti tra i due Paesi, con scambi d’accuse via via più pesanti. Del resto, da mesi Trump osserva con crescente preoccupazione i conti economici americani, disastrati dal morbo.
Il presidente americano guarda il numero di morti e disoccupati che continua ad aumentare, le aziende e i negozi che chiudono a decine di migliaia. E ogni giorno più nervosamente compulsa i sondaggi sulla sua popolarità, che da qui a novembre rischiano di precludergli il secondo mandato per regalarlo a John «Spleepy» Biden, il candidato democratico dormiente, l’ex vicepresidente di Barack Obama che fino a pochi mesi fa appariva un avversario inconsistente.
Buona parte dell’amministrazione statunitense (e una fetta dei servizi segreti, più nella National security agency che dentro la Cia) è intimamente convinta che il coronavirus sia stata l’arma segreta con cui Pechino – volutamente o per caso – è riuscita a neutralizzare tutte le ruvide mosse che Washington ha messo in campo dal 2016 per contrastare il pericoloso sorpasso cinese in campo economico, strategico e militare.
Dopo tutto, anche le previsioni economiche del Fondo monetario internazionale stanno lì a dimostrarlo: alla fine del 2020 la Cina sarà l’unico Paese al mondo che registrerà un Prodotto interno lordo in crescita, sia pure soltanto dell’1 per cento. Mentre gli Stati Uniti andranno sotto dell’8 per cento, un vero disastro. Così Trump insiste a fare della Cina il nuovo «impero del Male».
Dal punto di vista della Casa Bianca, la mossa è più che giustificata ideologicamente e strategicamente, ma è anche politicamente utile perché punta ad aggregare l’opinione pubblica americana contro il più classico dei «nemici esterni». E Xi Jinping non fa nulla per smentire il suo avversario: da mesi la guardia costiera di Pechino pattuglia con insistenza al largo dell’atollo delle Senkaku, le isole giapponesi che Pechino vorrebbe annettere, tanto che il 7 agosto il ministro della Difesa del Giappone, Taro Kono, ha denunciato «l’intrusione navale».
In luglio, Xi ha ordinato imponenti esercitazioni della Marina militare al largo dell’arcipelago Paracel, da anni conteso con Taiwan, Vietnam, Malesia, Brunei e Filippine, e per fine agosto ne ha già annunciate altre attorno alle isole Dongsha, controllate da Taiwan e situate 450 chilometri a sud dell’isola-Stato. Per non parlare della brutale repressione delle proteste popolari a Hong Kong, che dopo anni di malevola tolleranza da parte di Pechino sono state bloccate dall’improvvisa approvazione della nuova legge sulla «Sicurezza nazionale».
Con quella norma, varata lo scorso 30 giugno, 24 ore prima del ventitreesimo anniversario dell’addio inglese a Hong Kong, la Cina ha dato il colpo di grazia al solenne impegno di conservare le libertà civili nell’isola fino al 2047, preso da Deng Xiaoping con la Gran Bretagna di Margaret Thatcher, e ha vietato ogni «atto di sedizione, sovversione e secessione». La legge, in nome del contrasto delle «attività terroristiche a Hong Kong», prevede pene fra i tre anni di reclusione e l’ergastolo, dà mano libera alla polizia cinese e le consente di reprimere qualsiasi comportamento che possa essere anche solo considerato come «minaccia alla sicurezza nazionale». Dal primo luglio sono stati così arrestati centinaia di attivisti e i mass media sono stati oscurati, tanto che 14 giorni dopo Trump ha annunciato la cancellazione dello status speciale di Hong Kong nelle relazioni commerciali con gli Stati Uniti: «Da oggi l’isola sarà equiparata alla Cina» ha annunciato il presidente «quindi non avrà più nessun privilegio, nessun trattamento economico speciale, nessun export di tecnologia». Come nella migliore delle tradizioni, Pechino ha risposto che «nessun Paese straniero ha il diritto d’interferire negli affari interni della Cina».
Dall’inizio del 2020 la Cina ha compiuto molte mosse aggressive, indubbiamente favorite dalla consapevolezza che l’Occidente in generale, e gli Stati Uniti in particolare, sono in crisi per il Covid-19. L’attacco militare più impressionante, però, è quello sferrato a metà giugno. Gli italiani non lo sanno, perché i nostri giornali hanno ignorato la notizia. Ma quasi due mesi fa Cina e India hanno duramente combattuto lungo il confine conteso della regione himalayana del Ladakh, contesa tra i due Stati, e da allora migliaia di soldati dei due Paesi si fronteggiano nella zona. Nello scontro, che è il primo con vittime dagli anni Settanta, sarebbero morti almeno 20 soldati indiani, tra i quali un colonnello. Come nella favoletta di Fedro, il lupo cinese ha accusato l’agnello di avergli sporcato l’acqua: un portavoce del governo di Pechino, Zhao Lijian, ha dichiarato che militari indiani avrebbe «attraversato il confine per due volte il 15 giugno, provocando il nostro personale e causando un serio confronto fisico». Il governo di Dehli, con qualche credibilità in più, sostiene il contrario e accusa la Cina di aver «inviato migliaia di soldati nel Ladakh» e di averne occupato addirittura «38 mila chilometri quadrati».
Immagini satellitari, in effetti, mostrano che la Cina sta continuando ad ammassare attrezzature militari nella zona: soprattutto pezzi d’artiglieria pesante e carri armati. Dal 1962, quando l’India subì la sconfitta nella guerra con la Cina che aveva come oggetto proprio quei territori di conflitto, il Paese non è mai stato così vicino agli Stati Uniti come oggi: il suo presidente, Narendra Modi, si è drasticamente riallineato a Washington e ha stretto intense relazioni militari anche con l’Australia.
La zampata cinese sul Ladakh, secondo i più attenti osservatori internazionali, è una mossa vitale per la possibilità di realizzare la nuova Via della Seta, l’immensa infrastruttura commerciale che punta ad avvicinare l’Europa a Pechino: ma è stata soprattutto lo strumento per saggiare la capacità di reazione strategico-militare degli Stati Uniti e più in generale dell’Occidente.
Da questo punto di vista, la risposta statunitense fin qui è stata quasi inesistente. È vero che nel Pacifico sono dislocate tre portaerei e che nello Stretto di Taiwan, costantemente pattugliato dai caccia cinesi, i jet americani hanno fatto 67 sortite in luglio, aumentando il ritmo rispetto alle 49 di giugno e alle 35 di maggio, e ogni volta sono riusciti a innervosire i comandi tattici dell’aviazione di Pechino, tanto che il 3 agosto si è andati a un soffio dallo scontro armato. Ma Trump finora sembra aver scelto di colpire il «nemico» Xi Jinping soltanto nei suoi interessi economici.
Come ha fatto il 7 agosto con il social network TikTok, che la Casa Bianca ha bandito dagli Stati Uniti assieme alla app WeChat in base all’accusa di essere due strumenti nelle mani dei servizi segreti cinesi, che li userebbero per raccogliere informazioni sugli utenti americani. È esattamente quanto da almeno due anni l’amministrazione repubblicana sostiene faccia Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni, attivo a livello globale nella rete di nuova generazione 5G: per questo, Huawei prima è stata allontanata dagli Stati Uniti, e poi Washington ha esercitato forti pressioni sull’Europa perché facesse altrettanto: ha ottenuto fin qui che Grecia, Regno Unito e Francia rinunciassero alle tecnologie cinesi, e ora potrebbe seguire anche l’Italia. La Guerra fredda, insomma, ora si avvicina anche a noi.
Il potere delle armi

La competizione tra Stati Uniti e Cina nei nuovi sistemi bellici è sempre più serrata. Washington ha una superiorità tecnologica in particolare nei satelliti, ma Pechino è all’avanguardia in aerei e missili di nuova generazione.
di Maurizio Tortorella
La competizione militare tra un Paese democratico e uno dittatoriale ha caratteristiche complesse. A partire dalla trasparenza. Negli Stati Uniti, il bilancio militare nel 2020 ha raggiunto 649 miliardi di dollari. Ma nella Repubblica popolare cinese? Mistero. L’International peace research institute di Stoccolma stima che l’Armata di liberazione popolare, l’Alp, cioè l’esercito cinese, nel 2019 sia costato 260 miliardi di dollari. L’esercito americano ha di sicuro 475 mila effettivi, più 200 mila di riserva, mentre sempre in base alle stime degli osservatori internazionali Pechino avrebbe quasi 2 milioni di soldati: le forze di terra sarebbero formate da 975 mila uomini, la Marina militare da 240 mila, l’Aeronautica da 395 mila, la Forza missilistica strategica utilizza 100 mila uomini. Altre funzioni, non meglio specificate, sarebbero svolte da 150 mila tra soldati e ufficiali. È evidente che la gara per l’egemonia globale tra Cina e Stati Uniti passa anche per la strada dell’egemonia militare. E infatti nel 2019 Xi Jinping ha indicato precisi obiettivi di medio e lungo termine all’Alp, ricordando al mondo che l’esercito cinese dipende funzionalmente non dallo Stato, bensì dal Partito comunista: «Vogliamo il rafforzamento della lealtà politica delle nostre forze armate» ha ordinato il presidente cinese «la loro modernizzazione attraverso la riforma e la tecnologia, e la focalizzazione sulla capacità di combattere e vincere». Proprio per «combattere e vincere» (due verbi inevitabilmente inquietanti), le forze armate cinesi «al più tardi entro il 2035» dovranno «trasformarsi pienamente in un esercito di classe-mondiale», cioè essere all’altezza del «nemico» statunitense.
Tra le armi cui la Cina affida il compito, in prima linea c’è l’evoluzione del Chengdu J-20, un aereo da caccia «stealth», cioè invisibile ai radar: dovrà avere prestazioni molto superiori all’F-35 americano, e Pechino vuole ovviamente schierarlo molto prima del 2035, indicato come traguardo da Xi Jinping. L’F-35 da battere è prodotto dalla Lokheed ed è un jet di quinta generazione: si basa su un sistema d’intelligenza artificiale che elabora in tempo reale i dati provenienti da radar e telecamere a 360 gradi, e mette a fuoco tutto quel che c’è da sapere sull’obiettivo da colpire. Su uno schermo il pilota dispone così di «sistemi di avviso di minaccia» che compilano, selezionano, analizzano e integrano tra loro tutte le possibili variabili dell’aereo avversario, dall’altitudine all’angolo di avvicinamento, dalla sua velocità all’armamento innescato. Ma i progettisti del Chengdu J-20 promettono un sistema capace di surclassare ogni sistema di automatizzazione esistente, basandolo su sensori affogati nella fusoliera. Quanto ai sistemi d’arma, lo stealth cinese dovrebbe essere dotato anche di laser.
Gli Stati Uniti rispondono alla gara con il nuovo missile C-Hgb (Common hypersonic glide body), lanciato in via sperimentale lo scorso marzo. È un razzo dalla forma appiattita, che viaggia a cinque volte la velocità del suono. Viene trasportato oltre l’atmosfera da aerei-lanciatori, poi se ne distacca e scende con un angolo molto più stretto rispetto ai tradizionali missili balistici: vola spostando continuamente la traiettoria, rendendola imprevedibile.
In realtà, la Cina ha fatto passi da gigante anche nel campo delle ogive ipersoniche: nell’ultima grande parata del 1° ottobre 2019, per festeggiare i 70 anni della rivoluzione maoista, sono sfilati anche i nuovi DF-17. Nel frattempo, Pechino, come la Russia di Vladimir Putin, sta sviluppando sofisticati sistemi anti-satellite con i quali colpire la supremazia statunitense nello spazio.È per questo che Donald Trump lo scorso dicembre ha compiuto un passo laterale, una mossa di scarto che ha cambiato la traiettoria della competizione militare a distanza.
Il presidente americano ha creato una nuova forza armata, la United States Space Force (Ussf), destinata alla militarizzazione dello spazio: quest’anno è stata dotata di 16 mila uomini e di appena 40 milioni di dollari, ma nel 2021 avrà stanziamenti per almeno 15 miliardi. Il 24 giugno 2020 Trump ha poi emanato una direttiva per dare impulso a ricerca e produzione di «materiali compositi da alta e ultra-alta temperatura per missili strategici e ipersonici e per sistemi di lancio spaziale, essenziali per la difesa nazionale». Affidata al generale d’aviazione Jay Raimond, la Ussf dovrà vigilare perché i sistemi spaziali americani non vengano minacciati dalle armi antisatellite della Russia e soprattutto della Cina. Lo spazio è per ora una realtà prevalentemente americana: gli Usa hanno in orbita 1.327 satelliti in funzione, 965 dei quali civili, tra scientifici e commerciali, mentre 362 sono governativi e militari.
Qui le altre potenze sono indietro: la Cina è seconda con 363 satelliti e la Russia è terza con 169. Per questo Pechino e Mosca stanno investendo potentemente in armi capaci di distruggere i satelliti americani, sparando sia dalla Terra sia direttamente nello spazio. E per questo la neonata Ussf si contrappone ora direttamente alla «Forza di supporto strategico cinese», un reparto dell’Alp che dal 2016 ha riunito le competenze spaziali, quelle di cyberguerra e di guerra elettronica: al suo interno convivono specialisti di guerra nello spazio, specialisti di spionaggio via internet, specialisti d’intelligence informatica. E non sono pochi, se è vero che si stima siano, in totale, 175 mila uomini. L’originale approccio mentale dei cinesi è stato quello di radunare in un’unica forza armata tutte le competenze speciali di alta tecnologia, slegando lo spazio dall’aeronautica e abbinandolo all’informatica militare. Gli Stati Uniti sono oggi alla rincorsa di quel modello, con quattro anni di ritardo.
Uno dei primi atti operativi dell’Ussf è stata, a fine marzo, l’entrata in servizio di un nuovo bastione radar, lo «Space fence» costruito da Lockheed e General Dynamics sull’atollo di Kwajalein, nelle isole Marshall. Il sistema, costato 1,5 miliardi di dollari, assicura il rilevamento e il tracciamento di 200 mila oggetti nell’orbita terrestre al di sopra del Pacifico: vede oggetti piccolissimi, anche di pochi centimetri di diametro.