Nel conflitto ucraino, anche piccoli successi sul campo vengono sfruttati da Kiev per ottenere armi e risorse dall’amministrazione Biden. Ma lo sforzo bellico degli Stati Uniti finisce lì. Troppi I rischi (e i flop del passato), mentre diventano prioritarie la crisi economica interna e le elezioni di mid-term. Mosca lo sa bene, così come la Cina.
«Abbiamo raggiunto una situazione di parità» nell’Ucraina orientale, afferma con soddisfazione Yuriy Bereza, comandante dell’unità Dnipro-1 della Guardia nazionale ucraina, che combatte fuori dalla città orientale di Sloviansk. Nelle prime linee a est i soldati della 93esima Brigata hanno recentemente riconquistato circa cinque chilometri quadrati di campi di grano e qualche carro armato russo. Mentre altre unità hanno liberato una piccola serie di villaggi a inizio agosto, e continuano a strisciare a pancia in giù scavando nuove trincee ogni 100 metri.
Sono i dispacci che gli ucraini inviano regolarmente agli osservatori americani, per aggiornarli sull’andamento del conflitto e convincerli a inviare nuovi aiuti. Nelle pianure del Donbass, riporta il New York Times, i comandanti interpretano questi modesti guadagni come «un risultato misurabile della strategia ucraina». Tutto ciò ha riportato il buonumore a Washington, dove gli analisti del Pentagono ritengono che gli sforzi del governo per foraggiare a distanza la guerra in Europa stiano effettivamente ripagando. Ecco perché gli Stati Uniti forniranno ulteriori 4,5 miliardi di dollari al governo ucraino, portando il bilancio totale del loro supporto alla guerra a 8,5 miliardi. «Abbiamo inflitto perdite ai russi per almeno 70 mila uomini» stimano i comandi ucraini e americani. «Quindi la strategia funziona» è il succo del ragionamento dei generali a stelle e strisce. Ma la strategia militare Usa si ferma qui. Nel fornire supporto logistico, economico e intelligence. Quanto a impegnarsi in una guerra vera e propria, quello no. Troppi rischi e fallimenti, dall’Iraq all’Afghanistan, per far digerire all’opinione pubblica un nuovo sforzo bellico.
Una lezione che viene da lontano, e che ancora oggi si rifà alla «dottrina Clinton». Era l’autunno 1993 e gli Stati Uniti si erano lanciati in un’incursione militare in Somalia, a Mogadiscio, per sostenere le forze Onu impegnate in violenti scontri con i signori della guerra locali. L’operazione, che coinvolgeva mezzi aerei, veicoli e circa 160 soldati, si sarebbe presto rivelata un fiasco totale. Il convoglio Usa venne infatti bloccato da barricate lungo le impervie strade della capitale somala, con le milizie locali che riuscirono anche ad abbattere due elicotteri americani Black Hawk. Soldati della Delta Force corsero a soccorrere i superstiti dei velivoli abbattuti, ma rima-sero intrappolati in una battaglia che durò un giorno intero, provocando la morte di 18 americani. La sconfitta fu così scioccante per l’opinione pubblica americana, che il presidente Bill Clinton ordinò il ritiro delle truppe dalla Somalia e pretese che fossero rivisti i criteri secondo cui gli Usa e le forze Onu dovevano essere coinvolti in operazioni internazionali di peacekeeping. La battaglia di Mogadiscio pose così le premesse perché gli Stati Uniti non dispiegassero più le proprie forze in conflitti esteri, a meno di circostanze ritenute «vitali» per la nazione. In seguito, il «nulla di fatto» in Iraq e Afghanistan ha confermato la validità di tale dottrina.
Meglio dunque continuare a potenziare l’intelligence, decapitando terroristi ovunque ci sia bisogno (vedi l’esecuzione con un drone killer del leader di Al Qaeda Ayaman Al Zawahiri, lo scorso 31 luglio, in Afghanistan) e coordinando eserciti o milizie terze. Cosa che, stando alla regia bellica di Washington in Ucraina, sembra funzionare sufficientemente bene. Mentre l’inettitudine dei russi è palese, sostengono. E quindi non c’è bisogno di fare di più. Dopo l’annichilimento delle unità che intendevano circondare la capitale Kiev a febbraio, l’ultima disastrosa incursione russa sul fiume Donec ad agosto (i comandi di Mosca volevano attraversarlo per assicurarsi il controllo dell’autostrada M03, che collega Kiev a Kharkiv e prosegue fino alla russa Rostov) ha dimostrato che le informazioni satellitari Usa e i loro missili Himars possono fare più e meglio di truppe americane schierate sul campo: secondo Kiev, lungo il Donec «70 veicoli corazzati russi hanno preso fuoco a causa dei colpi d’artiglieria delle nostre Forze armate. Dei 550 uomini in servizio nella brigata russa, 485 sono stati uccisi». E tutto grazie alle «super armi» fornite da Washington.
Nonostante ciò, la Russia non intende indietreggiare in Ucraina: il capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov è convinto che alla lunga il Congresso degli Stati Uniti si stancherà di supportare una guerra lontana e poco sentita dal popolo americano. Visti anche i problemi di ordine economico, che indicano una possibile recessione negli Stati Uniti nei prossimi mesi. L’ipotesi non è lunare, considerato poi che le elezioni di Mid-term a novembre potrebbero avverare per Joe Biden l’incubo della cosiddetta «anatra zoppa»: la situazione politica per cui il presidente, non avendo più una maggioranza al Congresso, ha limitate capacità d’iniziativa. Con ogni probabilità, stimano i russi, dovrà rinunciare anzitutto a finanziare Kiev.
Anche perché un’altra guerra e altri sforzi bellici ben più impegnativi si profilano all’orizzonte: precisamente a Taiwan. La Cina – vero avversario degli americani in questo nuovo millennio – sta usando le esercitazioni aeree e marittime intorno all’isola ribelle per preparare un’invasione e cambiare lo status quo nella regione dell’Asia-Pacifico, dove passano le rotte commerciali più importanti al mondo e dove si producono i materiali più utili all’industria tecnologica americana. Washington, pertanto, ha un problema ben più grande che sostenere un poco influente Stato europeo ai confini della Nato; mentre deve decidere cosa fare di fronte al blocco navale cinese. Il blocco di Taiwan «interessa soprattutto il fianco orientale, un’area strategicamente vitale per i rifornimenti che devono giungere alle forze militari dell’isola, così come qualsiasi potenziale rinforzo americano» afferma il generale Maurizio Boni, che è stato a capo del Nato Rapid Deployable Corps per l’Italia.
A Pechino sembrano intenzionati a non recedere dai propri intenti bellicosi, e scommettono tutto sulla «dottrina Clinton». La risposta statunitense, in effetti, per adesso punta soprattutto a ostacolare lo spionaggio cinese e i piani di sviluppo della Repubblica popolare nel campo dei semiconduttori. In effetti, il Congresso ha autorizzato un piano monstre per sostituire l’industria taiwanese da cui dipende per i microchip, varando un maxi-aiuto di Stato da 280 miliardi per far ripartire la produzione interna. Intanto, a livello politico ed economico, la Cina potrebbe decidere di seguire la strategia diplomatica della Russia che punta a ribaltare quella che fu l’intesa sino-americana in funzione antisovietica, con un accordo che avvicini Pechino e Mosca per isolare l’Occidente democratico e ridefinire tanto i confini quanto le aree d’influenza.
Oggi gli Stati Uniti si trovano a metà strada tra l’utilizzo del soft power – che punta a influenzare la politica attraverso la diplomazia, la cultura e la comunicazione – e l’hard power – che invece fa largo uso del potere economico e militare per dominare le relazioni internazionali. Il futuro di Taiwan sarà, in questo senso, chiarificatore della dottrina che l’America intende seguire nel prossimo futuro.
