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Al Consiglio Ue tutti sconfitti. Conte di più perché non ha un piano B

Al Consiglio Ue tutti sconfitti. Conte di più perché non ha un piano B

Il vertice del Consiglio europeo sta mostrando tutte le fratture, le sfumature, le contraddizioni dell’Unione europea. In primo luogo, è l’Unione stessa come istituzione ad essere messa a dura prova: la discussione, e le decisioni che ne conseguiranno, sugli strumenti economici comuni vengono condotte dal Consiglio Ue, che riunisce i capi di governo, e non dalla Commissione, che rappresenta il governo dell’Unione.


La dialettica tra nazioni mostra come siano i governi a volere il maggior controllo sulle politiche europee, sottraendolo alle istituzioni comuni. La proposta dell’Olanda di far approvare i piani di riforma per l’utilizzo dei fondi europei da parte del Consiglio, con la possibilità di veto, è la massima espressione di questa volontà. L’assenza di fiducia reciproca, e dunque di capitale politico europeo, spinge i governi a fidarsi soltanto di loro stessi e della propria capacità negoziale. Ciò perché i cittadini europei pagano le proprie tasse ai governi nazionali, votano per eleggere compiute assemblee parlamentari nel proprio paese, esercitano un controllo nei confronti dei propri governi che ad essi devono rendere conto. In altre parole, per la struttura delle istituzioni europee, ancorate ad una logica economico-funzionale, i governi nazionali tendono sempre a prevalere sulle istituzioni comuni al fine di siglare patti e sintetizzare interessi. Ne è ulteriore testimonianza la continua creazione di nemici interni (i sovranisti) ed esterni (l’Europa) intercambiabili, a seconda delle sensibilità politiche, all’interno della sfera pubblica dei singoli paesi.

In secondo luogo, sono saltati i tradizionali schemi politici del dibattito pubblico europeo. Il premier olandese Mark Rutte fa parte a pieno titolo della coalizione europeista che governa a Bruxelles, ma in questi giorni viene percepito dai colleghi come un nemico dell’Europa, trattato alla stregua dei più radicali sovranisti; Giuseppe Conte, un tempo avvocato sovranista-populista del popolo italiano, oggi recita il ruolo del convinto europeista; Victor Orban, fino a ieri considerato dagli avversari e spesso anche dagli alleati europei come un pericolo per la democrazia liberale, si è schierato a fianco dei paesi mediterranei per arrivare ad un accordo più robusto sul Recovery fund. La crisi a seguito della pandemia ha ridisegnato la geografia delle alleanze, dividendo i Paesi del nord, con i conti in ordine ed impatto modesto dell’emergenza sanitaria, da tutti gli altri. Ha mostrato europeisti inflessibili e resistenti all’integrazione e sovranisti che anelano al sussidio comune. Un segno che quando si parla di politica europea certe categorie andrebbero usate con molta parsimonia, proprio perché sono gli interessi della singola nazione che prevalgono sulla politica comune. E soprattutto non dovrebbe far dimenticare ai commentatori le scorie imperiali che gli europei si portano dietro dalla propria storia, e che riaffiorano più frequentemente di quanto non si pensi. Di fatto, incentivando le istituzioni europee l’affermarsi della supremazia degli interessi di alcune nazioni o, meglio, di un certo gruppo di nazioni intorno ad una principale (si pensi alla Germania e alla sua area d’influenza), esse favoriscono una certa inclinazione imperiale dell’Unione europea. Non è un caso, infatti, che solo Berlino oggi reciti il gioco di grande potenza mediatrice quando si tratta di questioni europee.

In terzo luogo, è probabile che un accordo sul Recovery fund e gli altri strumenti si riesca a trovare. A dispetto dei proclami di qualche settimana fa, sarà un accordo a ribasso che, come spesso accade a Bruxelles, lascerà tutti insoddisfatti e, al tempo stesso, tutti vincitori.

In questo scenario s’inserisce la particolare situazione dell’Italia. A breve (29 luglio) Giuseppe Conte chiederà al Parlamento di votare un nuovo scostamento di bilancio da 18 miliardi, ma il nostro paese è l’unico in Europa a non aver presentato un piano di riforma. Non sono chiare le priorità del governo, quali siano le riforme in cima all’agenda di Palazzo Chigi, mentre si continua con la politica del tamponamento attraverso i sussidi pubblici. E dopo? Cosa ci sarà dopo la cassa integrazione, la fine del divieto di licenziamento, decine di migliaia di nuovi fallimenti, milioni di disoccupati ed un rapporto debito pubblico/PIL superiore al 160%? Cosa accadrà quando si dovranno stringere i cordoni della borsa? L’esecutivo non ha dato segno di avere alcuna strategia per il rilancio economico, nonostante l’Italia registri le peggiori previsioni economiche d’Europa. Il governo ha mostrato però, con chiarezza, quale sia il suo pubblico elettorale, cioè i dipendenti pubblici e le grandi imprese in difficoltà da sostenere con sussidi o da nazionalizzare. Un approccio burocratico e assistenzialista che va in senso contrario sia alla richieste di Bruxelles che al senso comune. Una situazione che mostra anche un Partito democratico, la forza politica più governista nell’Italia di questi anni e meglio introdotta a Bruxelles, sempre più indebolito ed incapace di controbilanciare l’approssimazione del Presidente del Consiglio.

Tutto ciò mentre le partite Iva, le piccole-medie imprese, i giovani, i lavoratori precari, cioè coloro che sono stati maggiormente colpiti dall’impatto economico della pandemia, vivono senza ripari del governo e versano le imposte senza rinvii. L’assenza di qualsiasi piano e priorità è la carenza strutturale più vistosa del secondo governo Conte, un approccio che debilita l’Italia anche nelle trattative europee. D’altronde, in questa situazione di collettiva debolezza europea, chi vorrebbe dare credito ad un governo che affronta emergenza economica e trattative con quest’improvvisazione?


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