Con i fondi Ue, l’area tedesca ha garantito al Mediteranneo l’acceso ai mercati finanziari. Una mossa che dà ai tedeschi un potere crescente sulla politica e sull’economia del Continente. Mentre dal recente patto con Pechino beneficeranno soprattutto le grandi imprese dell’asse franco tedesco. In questo scenario in via di definizione è interessante la posizione dell’Italia. Il Paese in proporzione più legato al Dragone sul piano economico-finanziario, insieme alla Germania, ma escluso dal vertice finale dell’accordo sugli investimenti. A cosa sono serviti anni di sinofilia ed europeismo delle nostre classi politiche per finire poi esclusi dal momento decisionale? Per altro, Roma da un lato ha fatto raffreddare gli americani quando nel 2018 siglò un Memorandum of understanding con la Cina, ma non sembra esser riuscita a diventare un interlocutore indispensabile per il governo di Xi in Europa.
Nelle fasi di transizione politica accadono spesso cose molte interessanti. E’ al momento, nella politica internazionale, è in corso la transizione presidenziale nel Paese più importante, gli Stati Uniti d’America. E’ nelle more di un passaggio di consegne burrascoso tra Trump e Biden che i leader europei, con Angela Merkel in testa, hanno scelto di finalizzare un accordo sugli investimenti con la Cina. Una scelta che allontana l’Unione europea dall’alleato americano, il quale non cambierà la propria linea politica verso Pechino nonostante il cambio di colore della presidenza.
Il trattato giunge a compimento proprio ora dopo sette lunghi anni di trattative, complice anche l’ultima stagione di Merkel da cancelliera e la ricerca di nuovi mercati per i prodotti europei nel post-Covid.
Cosa prevede l’accordo? La Ue garantisce alle sue imprese un nuovo accesso per investire in Cina nel trasporto aereo, come i sistemi informatici di prenotazione e di assistenza a terra, i servizi di cloud computing, le auto elettriche e le attività terrestri legate ai servizi marittimi.
I requisiti delle joint venture saranno eliminati per il settore automobilistico, molti servizi finanziari e per gli ospedali privati nelle grandi città, per il settore pubblicitario, i servizi immobiliari e ambientali.
L’accordo eliminerà inoltre le limitazioni dei progetti per i servizi di costruzione e si impegna all’apertura nella maggior parte dei settori manifatturieri e dei servizi informatici.
Chi ci guadagna? Le grandi aziende tedesche e francesi prevalentemente, che operano nei settori inclusi nel nuovo patto. La Cina otterrà alcune nuove concessioni sugli investimenti nei settori manifatturiero ed energetico, anche se le sue partecipazioni nelle società di energia rinnovabile della Ue non potranno superare il 5%.
Tuttavia, poiché il blocco europeo è stato più aperto agli investimenti esteri rispetto alla Cina, Bruxelles vede l’accordo principalmente come rimedio agli squilibri, fornendo a Xi Jinping la garanzia di non mettere a repentaglio l’accesso esistente. Gli investimenti europei in Cina hanno raggiunto più di 140 miliardi di euro in 20 anni, con 120 miliardi di euro che vanno nel verso opposto.
Ma al di là dei numeri economici, è l’elemento strategico che appare il più interessante. E’ la saldatura del blocco euroasiatico in maglie che si stringono e costringono l’estremo occidente americano a confrontarsi con una geometria variabile. Quanto l’Impero lascerà spazio ai propri grandi vassalli europei? L’osservato speciale è naturalmente Berlino, che imperterrita prosegue una politica mercantilistica e che con la crisi pandemica si è decisa ad accentuare la propria espansione sul resto d’Europa, in particolare sul Mediterraneo. Con il Recovery fund e gli altri programmi, di fatto, l’area tedesca ha garantito per il sud Europa l’acceso ai mercati finanziari. Una mossa che dà ai tedeschi un potere crescente sulla politica e sull’economia del Continente. Una egemonia rafforzata anche dall’attuazione della Brexit, che rimette il Regno Unito ancor più saldamente nell’anglo-sfera. Non è un caso che il primo trattato post-Brexit sia stato siglato con la Turchia, potenza complessa ed antipatica per gli altri Paesi europei.
Uno scenario, dunque, che non permette di escludere future tensioni tra gli apparati dello Stato americano e i Paesi europei, che cercano di ritagliarsi una terza via tra Pechino e Washington. Non ci sarà più The Donald, ma nulla assicura che più silenziosamente i democratici, il partito americano più tradizionalmente protezionista, non impongano nuovi dazi su alcuni prodotti europei.
In questo scenario in via di definizione è interessante la posizione dell’Italia. Il Paese in proporzione più legato alla Cina sul piano economico-finanziario, insieme alla Germania, ma escluso dal vertice finale dell’accordo sugli investimenti. A cosa sono serviti anni di sinofilia ed europeismo delle nostre classi politiche per finire poi esclusi dal momento decisionale? Per altro, Roma da un lato ha fatto raffreddare gli americani quando nel 2018 siglò un Memorandum of understanding con la Cina, ma non sembra esser riuscita a diventare un interlocutore indispensabile per il governo di Xi in Europa. Il risultato è una duplice sconfitta: sempre più paese di secondo piano, poco affidabile, per l’Impero di Washington e smaniosa di sedurre Pechino ma senza riuscire a diventarne un tramite fondamentale. Se a questo sommiamo la crescente impotenza militare e diplomatica italiana nel Mediterraneo, si vedano i casi di Libia ed Egitto, è sempre più evidente che il Paese dovrà presto scegliere per sopravvivere a quale corrente appartenere, cioè se essere avamposto del potere tecnocratico cinese, alleato affidabile degli americani, oppure Stato dipendente dalla diarchia franco-tedesca. La prima è una strada pericolosa perché ci porta fuori l’asse militare-tecnologico da cui dipendiamo e rischia di essere infruttuosa; la seconda sarebbe, pur dentro il quadro europeo, praticabile ma non è nelle corde di questa classe politica, a caccia di ricompense di breve termine; la terza è sostanzialmente già realtà. Certo è che l’infatuazione inconcludente per la Cina, a vantaggio soltanto di alcuni rentier di Stato, e l’impotenza dentro il sistema europeo insieme possono condurre alla rovina. Le colpe di tanta decadenza vanno ricercate in casa prima che altrove.
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