Negli ultimi giorni una notizia di una certa rilevanza per comprendere lo stato dell’economia e della politica italiana è passata sotto silenzio. Secondo il report periodico del Cnel sulla contrattazione collettiva, il 61,6% dei contratti collettivi nazionali di lavoro risulta scaduto alla data del 30 giugno 2020. Eppure la politica insiste sulla cristallizzazione del mondo del lavoro, nonostante per l’intero 2020 il decreto Dignità sia stato sospeso. Non a caso il decreto Agosto consente di licenziare solo in caso di chiusura o fallimento.
Gli accordi in attesa di rinnovo sono 576 su 935. Tra coloro che aspettano il rinnovo contrattuale ci sono oltre 10 milioni di lavoratori privati (il 79,2%) che salgono a più di 13 milioni se si aggiungono i circa 3,2 di dipendenti pubblici. Fra le categorie interessate, sanità privata, metalmeccanici,giornalisti, marittimi,bancari, lavoratori dello spettacolo. Un dato che ci mostra due prospettive interessanti sul rapporto tra politica e lavoro in Italia. Da un lato, lo strumento della contrattazione collettiva appare oramai obsoleto e superato. I sindacati sembrano incapaci di raggiungere accordi sugli aumenti salariali e sul welfare secondario. Intere categorie dei lavoratori continuano ad operare dentro la cornice di contratti collettivi scaduti da anni e scritti decenni prima. Situazione che fotografa una delle tante fossilizzazioni dell’economia italiana: sindacati poco rappresentativi (gran parte degli iscritti è oramai pensionata), oppressione fiscale e burocratica, incentivi distorti del welfare primario (statale) che rendono difficili nuovi patti in cui scambiare produttività e crescita salariale. Un segno inequivocabile di come un accordo tra capitale e lavoro oggi possa probabilmente essere siglato soltanto in maniera decentrata, a livello aziendale più che di categoria, come richiesto dagli stessi imprenditori. Dall’altro, questo scenario evidenzia come la politica si muova in senso opposto rispetto ai segnali forniti dal mercato del lavoro. La contrattazione collettiva appare sia superata dai fatti economici, che mostrano l’inadeguatezza dello strumento, sia dall’ipertrofia legislativa dei governi, che cercano di dirigere in modo centralistico il mercato del lavoro. Il più illuminante esempio degli ultimi anni in tal senso è senza dubbio il decreto Dignità varato dal Conte 1, misura politica fondamentale per l’allora ministro dello sviluppo economico e del lavoro Luigi Di Maio. Di fronte alla crisi della pandemia, il governo è stato costretto a sospendere la parte fondamentale di quella legge, scelta che permette alle aziende di rinnovare o prorogare i contratti a tempo determinato senza indicare la causale, senza la quale, secondo le disposizioni originarie del decreto dignità, il rapporto di lavoro si trasformava automaticamente in un’assunzione a tempo indeterminato. Di fatto, il tentativo del Movimento 5 stelle di irrigidire il mercato del lavoro è fallito sia per l’emergenza sia per quanto il mercato ha mostrato in questi anni. Gran parte dell’offerta di lavoro continua ad essere parcellizzata, a termine, flessibile. Ripristinare la stabilità del posto fisso era un’idea anacronistica, che in questi due anni di decreto Dignità ha per lo più complicato la vita delle imprese senza stabilizzare i lavoratori. Basti pensare che prima del Covid, nel novembre 2019, i contratti a tempo determinato erano aumentati superando i tre milioni mentre quelli a tempo indeterminato erano calati di qualche migliaio rispetto all’anno precedente. Nonostante questi fallimenti, la pretesa di governare il mercato con i decreti continua anche nella fase post-epidemica con la proroga del blocco dei licenziamenti stabilita dal Conte 2. Paradossalmente oggi licenziare è permesso soltanto a chi dichiara fallimento. In altre parole, nella politica governativa continua a permanere quell’idea di fondo secondo cui il libero mercato vale soltanto quando si fallisce e mai quando le aziende sono ancora vive. La politica fa di tutto per correggere le fisiologiche dinamiche economiche a colpi di regolamenti e per procrastinare l’esplosione delle crisi, invece di avviare subito riforme sostanziali. Si fatica a comprendere che costa di più la tutela ad ogni costo di un posto di lavoro o di uno stipendio che la creazione di nuovi lavori e di lavoratori preparati ad occuparli. E che, dopo mesi di blocco, è per chiunque meglio lavorare a termine che non lavorare affatto o restare prigioniero del sussidio statale.
Appurato ciò, la crisi economica scatenata dalla pandemia dovrebbe essere sfruttata per decentralizzare la contrattazione; favorire lo spontaneismo pattizio tra lavoratori e datori; lasciare emergere spontaneamente dal mercato le tendenze prevalenti; concedere maggiore libertà contrattuale alle imprese; trasformare l’assistenza in politiche attive. Servirebbero, in altre parole, deregolamentazione, flessibilità e rimodulazione della spesa previdenziale. Nessuno è mai uscito dalla crisi, cioè da un cambiamento inaspettato e negativo, con la rigidità mentre molti si sono rilanciati con la libertà d’intraprendere e cercare nuove soluzioni. Peccato che dagli uffici di questo governo, che paiono più distanti che mai dalla vita reale del mondo produttivo, continuino ad uscire solamente proposte che vanno nel senso esattamente contrario. Ma dirigismo, centralismo e legalismo rischiano di essere pagati molto cari nel corso di una crisi la cui portata è ancora incerta. Un prezzo che si riverserà, ancora una volta, sulle spalle di chi rischia, investe, produce e lavora più che su quelle di chi occupa un posto politico o dirige un ministero.
