Da Roberto Burioni ad Alberto Zangrillo, da Walter Ricciardi a Matteo Bassetti… Il coronavirus ha dimostrato che abbiamo bisogno della scienza. Ma possiamo fidarci di questi scienziati?
«Parlare di allarme coronavirus a Urbino sarebbe come parlare degli effetti di una bomba atomica sganciata a Trasanni». Così diceva il virologo Roberto Burioni il 4 febbraio scorso. Marchigiano di origine e di studi, tranquillizzava i suoi concittadini con dolci rassicurazioni al «Ducato». «Non ci deve essere preoccupazione, il virus non c’è né a Urbino né nel resto d’Italia. È molto più probabile essere colpiti da un fulmine» assicurava. O, per l’appunto, è più probabile che una bomba atomica venga sganciata sulla frazione di Trasanni.
Ora io non so come stanno da quelle parti, se l’esplosione nucleare c’è stata. Non so se dovremo ricordare Trasanni come Nagasaki o come Chernobyl. Ma di certo so che poco più di un mese dopo quelle parole, Urbino ha registrato il primo morto per coronavirus. Il 15 marzo i positivi nella piccola provincia erano già quasi 600. Di allarme coronavirus, con buona pace del marchigiano Burioni, nelle Marche si è parlato eccome. Come nel resto d’Italia. Si è cominciato allora. E non si è più smesso.
Diciamoci la verità: ora che dovremo ripartire, se ci riusciremo, non ci sarà soltanto da ricostruire l’economia disastrata, ma anche la reputazione degli esperti. Che è più disastrata ancora. Soprattutto quella degli scienziati. Perché la fiducia nella scienza è fondamentale, si capisce. Ma come si può avere fiducia nella scienza, quando ci sono scienziati così? «Con il coronavirus mi farò un ciondolo. È bellissimo. Me lo metterò al collo, sarà il mio trofeo» diceva a fine febbraio la virologa Maria Rita Gismondo. «Il virus è sopravvalutato. È solo un’infezione simil influenzale» diceva negli stessi giorni la virologa Ilaria Capua, sdottoreggiando come suo solito dalla Florida. Mentre pochi giorni prima l’infettivologo Matteo Bassetti assicurava: «Il virus fuori dalla Cina non è contagioso».
E non sarebbe nemmeno grave se non sapessimo che proprio in quei giorni (non mesi dopo, neppure settimane: proprio in quei giorni) il Journal of American Medical Association (Jama), una delle riviste più prestigiose del mondo, stava elaborando una ricerca sui primi 72.314 casi di infetti in Cina, in cui si segnalava proprio la pericolosità del coronavirus. La ricerca è stata pubblicata il 24 febbraio. Nelle stesse ore, all’incirca, in cui i nostri esperti scambiavano il coronavirus per un ciondolo da mettere al collo.
Infatti il 25 febbraio, il giorno dopo la pubblicazione della ricerca su Jama, il virologo Fabrizio Pregliasco sosteneva che «la malattia provocata dal coronavirus è banale e non contagiosissima, come invece possono esserlo il morbillo e la varicella». E il giorno dopo ancora, 26 febbraio, Matteo Bassetti invitava a «non annullare i viaggi». Poche ore prima Ilaria Capua, a chi gli chiedeva «Sarà una brutta influenza?», rispondeva: «Vedremo se sarà brutta». Meno del morbillo, insomma, meno della varicella.
Un’influenza e nemmeno tanto brutta, ecco. «Nessun allarme in Italia» assicurava Gualtiero detto Walter Ricciardi, già attore nelle sceneggiate di Mario Merola come L’ultimo guappo, poi candidato per Scelta civica con Mario Monti, infine consulente del ministero della Salute. Il quale ministero della Salute a inizio febbraio produceva indimenticabili spot con Michele Mirabella che invitava gli italiani a non modificare troppo le proprie abitudini perché (testualmente) «il contagio non è facile». Consiglio non propriamente azzeccato, si capisce. Resta solo da scoprire se a darlo è stato uno scienziato o l’ex attore di Mario Merola. Ammesso che ci sia qualche differenza tra i due.
Ve la ricordate la Fiera delle castronerie? Era un libro di un umorista francese, anni fa vendette milioni di copie in tutto il mondo raccogliendo il fior fiore degli strafalcioni e delle nefandezze. Ecco: nulla al confronto di quello che abbiamo visto in quest’anno in campo scientifico. Ma allora almeno c’era da ridere. Ora no. Ci sarebbe solo da dimenticare, se non fosse che gli autori di questi svarioni sesquipedali continuano a occupare le televisioni, a ogni ora del giorno e della notte, per darci lezioni su ciò che dovremmo fare.
E il punto è proprio questo: non il passato, ma il futuro. Perché noi vorremmo fidarci. Lo vorremmo tanto. Ma come si fa? A fine novembre Reputation Science ha pubblicato la classifica dei virologi diventati star degli schermi. Quello con il più alto indice di attendibilità è risultato Fabrizio Pregliasco, uno che il 30 gennaio scorso diceva: «La mascherina? Non ha senso». Al secondo posto, Franco Locatelli che addirittura il 5 aprile ribadiva (pur di andare contro la Lombardia): «Le mascherine? Non c’è evidenza scientifica». Se questi sono i primi due, figurarsi gli altri.
Del resto come stupirsi? Ora chi non indossa la mascherina viene trattato in pubblico come Jack lo Squartatore. Ma fino a gennaio anche l’Oms diceva che era inutile. Solo uno dei tanti sfondoni dell’ente sovranazionale che in questi mesi ha sostenuto tutto e il contrario di tutto, con la medesima sciagurata leggerezza. Gli asintomatici? Non trasmettono il virus, ma forse sì. Il modello svedese? È perfetto, ma anche no. I tamponi? Non vanno fatti a tutti, ma forse sì, ma anche no.
Ancora il 14 gennaio l’Oms pubblicava un tweet ufficiale per dire: non ci sono prove del passaggio del coronavirus da uomo a uomo. In Cina il passaggio da uomo a uomo era stata accertato, come minimo, da un mese. Ignoranza o malafede? Cosa è meglio e cosa è peggio? L’Oms ha coperto i ritardi di Pechino, ha elogiato il regime comunista nonostante le sue omissioni, si è dimostrata succube del denaro e del potere. E ha pasticciato anche con l’Italia, accettando di cancellare il documento che denunciava la mancanza del nostro piano pandemico. Forse in cambio della promessa di un contributo da 10 milioni di euro. O forse no. Ma come si fa ad avere fiducia nella scienza, se la scienza mondiale è in mano a enti così? Che scambiano i dati oggettivi con gli interessi politici? O economici? O entrambi?
Tutti abbiamo capito quanto sia importante la scienza. E perciò vorremmo fidarci degli scienziati. Ma come si fa? Prendete la complessa vicenda della clorochina, appena riabilitata per via giudiziaria. Può essere davvero utile, questo farmaco, per curare i malati nella fase iniziale del coronavirus, come sostengono molti medici? Oppure no? Il 22 maggio scorso The Lancet ha pubblicato uno studio in cui veniva messa in dubbio la sua efficacia, ma subito dopo si è scoperto che lo studio era basato su una ricerca farlocca, realizzata da una improbabile società con a capo uno scrittore di fantasy e una pornostar.
Resta da capire come abbia potuto essere pubblicata su Lancet. E soprattutto perché l’Oms l’abbia presa subito come Vangelo, bloccando su due piedi l’uso del farmaco, senza nessuna ulteriore verifica. Il che lascia uno strascico di dubbi: gli studi che bocciano la clorochina sono attendibili oppure no? È vero che sono realizzati su persone già ospedalizzate mentre, secondo i medici che usano questo farmaco, esso è efficace nella fase iniziale della malattia? E perché si sottolineano le possibili complicazioni cardiache mentre chi lo usa da anni (come i reumatologi) nega l’esistenza di simili drammatiche complicazioni cardiache? C’è un pregiudizio politico o economico su questa sostanza?
È chiaro che non possono essere i giudici a decidere se la clorochina può curare o no. Non ci fidiamo troppo dei tribunali quando si tratta della nostra salute. Ma il tema è: possiamo fidarci degli scienziati? Perché lo tsunami del Covid ha travolto, ancor più che le nostre barriere immunitarie, i pilastri della medicina. Prendete la cura al plasma: funziona o non funziona? E se funziona, come raccontano i medici di Pavia e di Mantova che l’hanno applicata per primi, perché è stata frenata? Perché davvero comporta troppi rischi, come sostiene qualcuno, o perché comporta pochi guadagni, come dice qualcun altro?
La scienza è sempre di più la nostra salvezza. Ma è anche la salvezza di tanti bilanci. E sapere che l’Oms si muove secondo logiche distorte, che l’Ue non rende pubblici (ma perché?) i contratti con cui acquista i vaccini e che l’Ema, l’agenzia europea del farmaco, ha l’84% del suo bilancio che dipende dalle aziende farmaceutiche un poco ci preoccupa. Riproponendo la stessa domanda di sempre: chi controlla i controllori?
Per questo la Fiera della Castronerie cui assistiamo ogni giorno è pericolosa. Perché ingenera confusione. E la confusione conviene solo a chi ha qualcosa da nascondere. Ma come si fa a evitare la confusione quando tutti straparlano? Quando gli esperti più celebrati vanno in giro dicendo che «il Covid è meglio della As Roma» (Roberto Burioni, scienziato tifoso), oppure che «il virus ci vede benissimo» perché colpisce Boris Johnson (Pier Luigi Lopalco, scienziato politico).
Oppure quando si pubblicano video che invitano a pestare Donald Trump (Gualtiero Ricciardi, scienziato guappo militante)? Come si fa a evitare la confusione quando i virologi si comportano da concorrenti del Grande Fratello, più preoccupati della cipria che della ricerca? Quando pensano più alla pubblicità dei loro libri che ai dati scientifici? Quando si svendono alla politica per una poltrona da assessore?
O quando si azzuffano fra di loro, litigando come comari al mercato o, peggio, come ultra al derby? Ma sì: roba da curva allo stadio. Non a caso è nato anche un album delle figurine con i loro volti. La Panini dei Virologi. Anzi, più che Panini, Canini. Come i denti che si mostrano l’un l’altro. E senza mai vergognarsene nemmeno un po’.
Ecco: quel che colpisce è che restano impuniti. Totalmente. Sbagliando s’impara? Macché: sbagliando s’impera. Burioni è riuscito a dire: «Il virus non arriverà in Italia» (31 gennaio), «Le mascherine sono inutili» (1 febbraio), «L’Italia è a rischio zero» (2 febbraio), eppure continua a pontificare a reti unificate. Alberto Zangrillo il 31 maggio giurava: «Il virus è clinicamente morto». Matteo Bassetti il 4 agosto ringhiava: «La seconda ondata non ci sarà, chi ne parla fa terrorismo». Giuseppe Remuzzi il 6 settembre garantiva: «La fase epidemica in Italia è sostanzialmente finita». Eppure tutti costoro continuano a imperversare, come se nulla fosse. Addirittura qualche giorno fa Zangrillo si è preso il lusso di attaccare «i virologi sempre in tv». Lui che è diventato così personaggio da guadagnarsi pure l’imitazione di Crozza…
Come facciamo a fidarci? Avremmo bisogno di certezze, nella confusione in cui siamo. Ma ne abbiamo sempre meno. Ed è vero che non è solo una questione italiana. A inizio febbraio, per dire, alcuni scienziati americani pubblicarono uno studio per dire che «per la salute lo scioglimento dei ghiacciai è peggio del coronavirus». Lo scioglimento dei ghiacciai. E altri loro colleghi fra il 26 e il 27 febbraio affollarono il Marriott Hotel di Boston creando così uno dei primi focolai della pandemia, come ha scritto la rivista Science accusando coloro «che dovrebbero fermare il virus, non spargerlo».
Lo sappiamo: di scienziati che sbagliano è pieno il mondo. Ed è piena la storia. Se si va indietro nei tempi, si trova di tutto: dal fisico inglese Lord Kelvin che nel 1900 sentenziò «i raggi X sono una pura mistificazione» al fisico austriaco Ernst Mach che nel 1913 si pronunciò contro «l’esistenza degli atomi», dall’astronomo William Herschel che nel 1781 dopo aver scoperto Urano garantì: «Sono certo che il sole è densamente popolato» al professore della California Academy of Sciences che nel 1924 bocciò Einstein dicendo: «La teoria della relatività è priva di senso».
Si potrebbe andare avanti all’infinito: la scienza, si è detto, procede per errori. Ed è vero. Ma un tempo gli errori rimanevano ristretti nei circoli o nelle aule dell’università. Ora invece arrivano direttamente nelle case degli italiani, ogni sera. «Abbiamo parlato troppo e abbiamo fatto un po’ di confusione» ha ammesso il 13 dicembre scorso l’ex direttore dell’Agenzia europea per il farmaco, Guido Rasi, a Repubblica. Finalmente un ravvedimento operoso? Macché. Quando ha rilasciato l’intervista Rasi aveva lasciato da poche ore l’incarico pubblico. Dalla sera dopo è diventato ospite fisso in tv.
