Dopo una transizione convulsa, con la caduta del Muro di Berlino che aveva fatto da detonatore, trent’anni fa si compiva la dissoluzione dell’Urss. Il Paese collassò sulle sue stesse contraddizioni mai affrontate da una nomenclatura preoccupata soprattutto di mantenersi in vita. Iniziava una nuova epoca, che ha portato all’odierno potere dello «zar» Vladimir Putin.
Inghiottita dalla sua stessa ideologia, l’Urss – l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche – che aveva condizionato e, in qualche modo, intimorito Occidente non c’è più. Da trent’anni. Il 25 dicembre 1991 la bandiera rossa del comunismo venne ammainata dal Cremlino e sostituita da quella della Russia con le strisce rossa-bianca-blu. Avvenne alle 18,16 di una giornata gelida (come abitualmente a Mosca, in quella stagione) flagellata dal vento siberiano.
La fine di un’epoca ebbe il sapore del tonfo improvviso. In realtà, arrivò a chiudere anni di difficoltà crescenti che, intrecciandosi, andarono a disarticolare (prima) per polverizzare (poi) le strutture di un sistema tanto debordante quanto inefficiente. Non fu un percorso indolore. La nuova fisionomia di Stato passò per un tentativo fallito di golpe e danzò lungamente sull’orlo di un tracollo che poteva sfociare in un bagno di sangue.
Occorre risalire all’11 marzo 1985 quando, alla segreteria del fino a quel momento onnipotente Partito Comunista Sovietico, venne nominato Mikhail Gorbaciov. Non un leader con personalità e carisma. Via Lenin e Stalin, erano stati deliberatamente scelti personaggi abbastanza incolore, da esporre in prima fila ma senza bisogno che prendessero iniziative autonome. Per quel ruolo, bastava un funzionario zelante nell’attuare le direttive che venivano dall’organo collegiale. A dispetto della considerazione di cui è stato circondato, quello del burocrate in grigio era il profilo di Gorbaciov, cui venne attribuito il ruolo del coraggioso anticipatore anche se le sue iniziative furono in parte casuali e in parte caricate di significati impropri, oltre le sue intenzioni.
La questione della perestrojka, per esempio, che risultò uno slogan carico di ambizioni, spuntò in un contesto del tutto conservatore. Venne pronunciata il 16 maggio (1985) a Leningrado nell’incontro con il comitato comunista della città. In quell’occasione, considerando che la produzione industriale e agricola non riusciva a rispondere ai bisogni della collettività, disse che occorreva rivedere alcuni meccanismi. Ma questo – altro che illuminato visionario – non per cambiare bensì per mantenere. Nell’esprimersi, non utilizzò il sostantivo ma il verbo, come sarebbe «perestojkare».
Anche la glasnost, altro cavallo di battaglia, fu inteso da Gorbaciov come necessità di discutere dei problemi senza nasconderli. Per la stampa, il vocabolo assunse il significato assai più impegnativo di «trasparenza» nella nascita delle decisioni e nel controllo della loro esecuzione. Gorbaciov era il nocchiero di una nave senza timone anche se – lui per primo – non se n’era accorto.
I reportage giornalistici e le cancellerie presero ad amplificare i suoi propositi, attribuendo la patente di successo alle sole intenzioni. Lui viaggiava senza risparmiarsi, in una serie di «tu per tu» con i grandi della terra e ovviamente prima di tutti il presidente degli Stati Uniti George Bush, il senior. I saggi di Svezia gli conferirono il premio per la Pace mentre i saggi d’Italia gli consegnarono il premio Fiuggi. I successi estetici all’estero nascosero le questioni interne.
Tutto questo chiacchierare risvegliò la voglia di autonomia degli «Stati fratelli» che non ne volevano più sapere di restare neanche parenti, e provocò la reazione dei conservatori che, in quel processo, vedevano sgretolarsi il mito dell’Unione Sovietica. La morte di Andrej Gromiko (2 luglio 1989) fu in qualche modo simbolica. Per anni, nelle cancellerie del mondo che contava, era stato «mister niet» – il signor no – che rivendicando il ruolo dell’Urss, ne rivendicava di fatto la supremazia.
Se ne andava l’epoca dell’orgoglio comunista incarnato dai vecchi nomi dell’apparatchik e cominciava quella di Gorbaciov che, però, non era riuscito a darle una forma compatibile. Aveva immaginato un processo controllato e stava precipitando senza paracadute. L’affanno con cui si agitava, intesseva trattative, firmava trattati di disarmo era per simulare un potere che non esisteva più. L’Unione sovietica era diventata un simulacro al cui interno ognuno prendeva decisioni in proprio.
La Polonia, con un processo che si potrebbe dire di gommapiuma, ebbe un primo ministro che veniva dal sindacato di Solidarnosc (Tadeus Mazowiecki) e, poco dopo, Lech Walesa che, di quel sindacato era stato l’uomo simbolo, fu votato alla presidenza dello Stato. In Bulgaria, Todor Zhivkov, prima di essere cacciato a viva forza, fece le valigie dopo una dittatura pluriennale. Se ne andò l’ungherese Gustav Husak. E Václav Havel, drammaturgo slovacco che era stato sbattuto in carcere per aver commemorato l’anticomunista Jan Palach, diventò presidente della Repubblica.
Il mondo cambiava e anche i più distratti se ne accorsero quando, il 9 novembre 1989, il portavoce del governo della Germania Orientale – un certo Günter Shabowski – annunciò che il passaggio fra le due Germanie era libero. La folla si riversò in strada e attraversò una frontiera che, per i trent’anni precedenti, era stata il simbolo della divisione.
Il muro che proteggeva il confine venne preso a martellate e diventò un colossale souvenir. Le elezioni successive (5 aprile 1990) portarono al governo Lothar de Maizière, un democristiano (con qualche peccatuccio di collaborazionismo da farsi perdonare) che chiedeva solo di consegnarsi al collega della Germania Occidentale Helmut Kohl. Fu decisa la moneta unica e, in qualche settimana, i due tronconi di Stato si fusero. A Berlino si riunì il Parlamento occidentale «rinforzato» da 144 deputati della disciolta camera dell’Est che di fatto fu cooptata.
Resistette (per poco) Nicolae Ceausescu, il satrapo romeno che, per marcare la differenza, aveva presieduto il congresso del partito comunista, allietato dalle consuete coreografie di chi gli tributava ovazioni entusiastiche. Per evitare contagi ideologici fece blindare le frontiere. Ma come fanno i doganieri a bloccare i pensieri? A Timisoara, una folla chiamata per applaudire prese a inveire, a fischiare e a ribellarsi. Ceausescu tentò la fuga ma fu catturato, sommariamente processato e fucilato in modo spiccio.
Non apparve stupefacente che la svolta si fosse macchiata di sangue semmai che, nel complesso, di sangue ne corse poco. Come per il fascismo con il 25 luglio 1943, il comunismo si lasciò sopraffare senza opporre resistenza. I più compromessi si ritirarono a vita privata. Gli altri si attrezzarono per rimanere con altri compagni di viaggio e differenti orizzonti politici. Il processo di autonomia non poteva fermarsi. Gli Stati baltici, l’Ucraina, la Georgia e la Bielorussia insistevano per affrancarsi da Mosca.
Gorbaciov immaginava di prendere a modello il Commonwealth degli inglesi, concedendo indipendenza a ciascuno con l’impegni di riferirsi alla Russia come madre-patria. Troppo poco per chi pretendeva. Troppo per chi vedeva frantumarsi l’Unione sovietica. I nostalgici tentarono di ribaltare il corso della storia con un colpo di Stato. Il tentativo di rovesciamento dell’establishment fece capo a Gennadij Janaev ma si avvalse dell’appoggio della nomenclatura a cominciare dai ministri Dimitrij Jazan e Boris Pugo. Poi il primo ministro Valentin Pavlov, il vice capo della difesa Oleg Baklanov e, addirittura, il capo della segreteria di Gorbaciov Oleg Senin.
Riuniti in un «comitato d’emergenza» dichiararono che il presidente era indisposto nella sua casa di vacanze in Crimea ma il tono dei proclami non lasciava dubbi. «Un pericolo mortale sovrasta la Patria. Le politiche di riforme sono a un vicolo cieco. Senza misure urgenti, sarà fame e miseria». Il fatto è che questi vertici avevano perduto il contatto con la base, che non li seguì. Alla maggioranza dei cittadini diede voce Boris Eltsin che, in quel momento, occupava l’incarico di presidente della Russia.
Si issò sui cingoli di un carro armato che avrebbe dovuto mantenere l’ordine nella Piazza rossa e arringò la folla. Gli atti del Cremlino vennero definiti «criminali». Incitò allo sciopero generale e alla resistenza. Il tentativo di golpe e la reazione presero un po’ tutti di sorpresa. Panorama uscì con un’edizione straordinaria per dare conto dei nuovi padroni dell’Unione sovietica e dovette gettare al macero un milione di copie che vennero sostituite da un’altra tiratura per raccontare del golpe fallito. Gli usurpatori vennero messi in fuga e Gorbaciov ricomparve a Mosca. Più che un leader che aveva conservato il potere, sembrò un naufrago sottratto al naufragio. Il padrone era Eltsin mentre l’Urss moriva.
Settant’anni di Urss
La bandiera dell’Unione sovietica, ammainata il 25 dicembre 1991, sventolava dal Cremlino da quasi 70 anni. Gli storici che hanno necessità di costringere il tempo in date definite, collocano la nascita dell’Urss sempre in dicembre, il giorno 30 dell’anno 1922. Ma, per l’appunto, si tratta di riferimenti poco più che burocratici.
Quel giorno arrivò a compimento un processo politico che aveva conosciuto una ventina d’anni d’incubazione. L’ideologo e primo propagandista di uno stato socialista, capace di tradurre in pratica l’ideologia marxista, fu Vladimir Ilic Uljanov che il mondo conosce come Lenin. Fu lui a vestire i panni del rivoluzionario fin dal 1903 quando – clandestinamente – venne celebrato il congresso del partito socialdemocratico.
Si scontrarono l’anima «moderata» che credeva nelle riforme e nei progressi a piccoli passi e la fazione degli intransigenti inclini alla violenza e a usare il proletariato come massa di manovra. Gli intransigenti ebbero la meglio conquistandosi la simpatia dei miserabili e dei derelitti. Per chi stava al fondo della piramide sociale, il potere di Mosca era diventato intollerabile.
Un po’ per responsabilità personale dello zar ma molto per i governatori nominati da lui che si comportavano come satrapi onnipotenti. In un territorio immenso le cui distanze, altro che percorrerle, erano difficili da immaginare, ogni rappresentante di una pur piccola autorità si sentiva autorizzato ad abusarne.
La Russia ribolliva di rabbia. Nel 1905, nel porto di Odessa, si ammutinarono i marinai della corazzata Potemkim. Operai e contadini scesero in piazza ma la rete organizzativa era fragile e fu costretta a soccombere alle cariche della polizia.
La repressione mise alle corde i rivoluzionari ma non piegò la loro tenacia. Lavorando nell’ombra, continuarono a tessere la tela di un’insurrezione che prima o poi – ne erano certi – sarebbe esplosa.
Ci vollero una dozzina d’anni e i massacri dei soldati sul fronte della Prima guerra mondiale ma, nel 1917, gli operai di Pietrogrado scesero in sciopero. Inizialmente, la polizia li affrontò. Poi, l’esercito si schierò con la rivolta. Lo zar Nicola abdicò e si formò un governo che includeva liberali, democratici e progressisti guidato (prima) dal principe Lvov e (poi) da Aleksandr Fëdorovič Kerenskij.
Troppo «capitalista» per essere accolto dagli operai i quali dettero vita a loro organizzazioni che chiamarono Soviet. Per l’assalto decisivo occorreva Lenin che, per evitare di finire in carcere, aveva dovuto espatriare. Ma come rientrare in patria, attraversando un’Europa dilaniata dalla guerra? Accettarono l’aiuto tedesco che mise a disposizione un vagone blindato.
In Russia, arrivò il 16 aprile (1917) e cominciò il terrore rosso perché chi ci stava doveva obbedire senza riserve e chi marcava qualche disappunto si trovava con il cappio alla gola.
Lenin rimase numero uno del partito fino al 21 gennaio 1924. Non era più in grado di parlare per via di un ictus che lo aveva colpito. I cronisti precisarono che morì «quando erano scoccate da un minuto le 19 e già faceva buio». La successione non fu semplice. Si scontrarono i sostenitori della tesi secondo la quale la rivoluzione doveva essere esportata nel mondo e chi preferiva realizzare l’ideologia del «socialismo in un solo Paese».
I «nazionalisti» – diciamo così – erano capeggiati da uno che si presentava come uomo d’acciaio: Iosif Vissarianovic Dzugasvili. Per l’appunto: Stalin. Dell’ideologia marxista sapeva poco e poco gl’importava di capirne. Ma aveva chiaro che il potere conquistato doveva essere protetto dalla spietatezza e dalla paura che la spietatezza generava.
Trasformò l’Urss in una caserma dove gli ordini dovevano essere eseguiti prima ancora che fossero pronunciati. I contadini finirono intruppati nei kolchoz che erano cooperative dove il lavoro e i consumi erano collettivi. E il programma di industrializzazione «forzata» fu concepito come se si trattasse di un girone dell’inferno. Chi lavorava era piuttosto uno schiavo che di questa sottomissione doveva essere soddisfatto.
Ogni tentennamento era considerato colpa grave, Lev Trockij che gli aveva conteso la segreteria fu emarginato, costretto alla fuga e liquidato dai sicari che l’inseguirono fino in Messico. Per scalare i vertici del partito Stalin sfruttò l’alleanza di Nikolaj Bucharin e di Grigorij Zinovev che però, raggiunto il risultato, divennero ingombranti. Furono accusati di ogni enormità e mandati davanti al plotone d’esecuzione. Nemmeno i più fedeli potevano stare tranquilli.
Sergej Kirov, per esempio. Neanche parlava se Stalin non lo richiedeva, ma godeva di buona considerazione nel partito, tanto da fare ombra al numero uno. Fu assassinato. La responsabilità venne fatta ricadere su «elementi deviati» ma l’ordine arrivò direttamente dal Cremlino. Fu il pretesto per una purga di proporzioni bibliche che coinvolse migliaia di persone. Perché nell’Unione sovietica la responsabilità diventava collettiva.
In carcere, sotto tortura e al patibolo non ci finiva solo il colpevole (presunto) ma anche familiari, amici e amici degli amici. «Bisogna finirla con la bonomia della errata convinzione che, aumentando le nostre forze, cresca la mansuetudine del nemico tanto da diventare innocuo. L’avversario deve essere accorciato della lunghezza della testa».
Il «nazionalista» Stalin non fu così estraneo alle questioni estere. Con Hitler raggiunse l’accordo per la spartizione della Polonia. Le terre a oriente dei fiumi Narev, Vistola e San sarebbero diventate sovietiche. Il resto poteva essere occupato dai nazisti. L’Urss rimase estranea al Secondo conflitto mondiale fino all’aggressione delle divisioni di Berlino. Solo allora l’Armata rossa scese in campo. Lasciò spazio a Hitler fino a Stalingrado e lì si attrezzò per bloccare i nazisti. Gli scontri furono spietati ma, alla fine, il Führer non passò e fu costretto a una ritirata che ebbe il carattere del tormento.
A ogni stagione, entrava in azione la macchina delle «purghe» macinando montagne di cadaveri. Nove professori di medicina vennero accusati di essere spie. Fingendo di curarli, avevano assassinato due capi di partito (Andrei Zdanov e Aleksandr Scerbakov) e tentato di far fuori i marescialli dell’esercito. Il bagno di sangue ebbe le consuete dimensioni disumane. «Non riesco a capire» secondo le parole di Pietro Nenni. «Chi ieri era sugli altari viene trascinato non nella polvere ma nel fango. E neanche comprendo per quale forma di delirio gli accusati ammettono di essere stati dei miserabili, aggiungendo all’accusa dettagli da essa ignorati. Molti gridano alla commedia. Altri pensano ai misteri dell’uomo. Io mi accontento di non capire».
Per questo, alla morte di Stalin, il partito non si consegnò più a un uomo solo. Scelsero personaggi più sfuocati, meno autoritari, disponibili al compromesso e a eseguire i dettami del partito. Più anonimi, se vogliamo, ma meno ingombranti. Non a caso, Nikita Kruscev che fu insignito della carica si preoccupò di «destalinizzare» l’Unione sovietica, denunciando errori e prevaricazioni. Finanziò le rivoluzioni comuniste in Africa e arrivò alle soglie della terza guerra mondiale quando pretese di installare dei missili balistici a Cuba, in pratica sulle coste degli Usa. Di lui, l’immagine più popolare venne diffusa quando, alle Nazioni Unite, utilizzò una scarpa da battere sul tavolo per chiedere attenzione.
Qualche successo autentico (come la missione nello spazio di Jurij Gagarin) e molti millantati (come la realizzazione di «piani» di sviluppo rimasti sulla carta). ll mito dell’Unione sovietica che inanellava successi economici venne contraddetta dalle immagini delle periferie, in preda alla fame e alla miseria. Dopo di lui, il periodo cosiddetto della «stagnazione» di Leonid Breznev. Che, in realtà, era la stagnazione dell’Urss. Il leader soffriva di leucemia che gli portava insufficienza cardiovascolari. Non riusciva a camminare e dovevano sorreggerlo.
Poi, personaggi ancora più modesti. Jurij Andropov, figlio di un ferroviere e di un’insegnante di musica, orfano a 14 anni e costretto a cercarsi un lavoro. Ci riuscì nel partito e raggiunse i vertici dei servizi segreti. Riservato, silenzioso, destinato a vivere nell’ombra e, tuttavia, sempre sul chi va là. Gli successe Konstantin Cernenko, così incolore che non si sapeva neanche dove fosse nato. Tentò di guadagnarsi una leadership globale mostrando i muscoli. Ormai non ci credeva più nessuno. L’Urss era un colosso dai piedi d’argilla, destinato al crollo.