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Ucraina: la lezione che l’Europa ignora

Ucraina: la lezione che l’Europa ignora

L’editoriale del direttore

La storia della collettivizzazione spiega meglio di qualsiasi commento le ragioni profonde che dividono ucraini e russi. Ma l’Occidente non ha imparato neanche quello che insegnano le vicende dell’ex Jugoslavia e del Kosovo.


C ’è un bel libro di Robert Conquest che s’intitola Il secolo delle idee assassine. Vent’anni fa lo distribuii con il Giornale, in una collana dedicata alla storia del Novecento. Lo storico inglese, autore di numerosi studi sull’Unione sovietica, oltre a descrivere il «delirio ideologico» che ci portò al comunismo, al fascismo e al nazismo (e a due guerre mondiali con l’uccisione di milioni di uomini), racconta nel volume lo sterminio dei kulaki, ovvero la disumana campagna di collettivizzazione dei campi che Stalin avviò alla fine degli anni Venti, trasformando l’Ucraina, cioè il granaio d’Europa, nel cimitero del continente.

Il regime bolscevico era affascinato dalla «modernità» delle macchine, convinto che grazie alle tecnologia sarebbe aumentata a dismisura la produzione e si sarebbe imposta la supremazia dell’Urss sul resto del mondo. In agricoltura, lo strumento per realizzare lo sviluppo del socialismo fu identificato nel trattore e nella mietitrebbia. Ma un simile macchinario per modernizzare le campagne non si poteva lasciare nelle mani dei piccoli proprietari terrieri che nel 1917 si erano impadroniti di propria iniziativa della terra, strappandola ai nobili che per centinaia di anni l’avevano sfruttata.

Quei contadini dunque divennero un ostacolo per il raggiungimento del fine superiore, perché i bolscevichi esigevano che i prodotti delle campagne finissero nelle mani dello Stato. Risultato, milioni di essere umani furono strappati alle proprie case e trasferiti a centinaia o migliaia di chilometri, costretti ai lavori forzati. In milioni persero la vita e allo stesso tempo l’economia agricola fu distrutta. Conquest racconta di come alla polizia politica fu affidato il compito di arrestare e deportare i kulaki, usando le parole di Vasilij Grossman, ebreo e principale storico sovietico in materia di Olocausto. «Consideravano i cosiddetti “kulaki” alla stregua di buoi, di maiali, esseri ripugnanti, repellenti: i kulaki non avevano l’anima; puzzavano; erano tutti affetti da malattie veneree; erano nemici del popolo e sfruttatori del lavoro altrui (…). Per loro non c’era pietà. Non erano esseri umani; era difficile dire che cosa fossero; chiaramente dei parassiti».

Stalin contro i kulaki mise in pratica uno sterminio che ha molte analogie con quello praticato dai nazisti contro gli ebrei. Il partito giustificò con l’interesse superiore ogni azione intrapresa contro i kulaki, che, come scrisse Il’ja Erenburg, non si erano macchiati di alcuna colpa, però appartenevano a una classe ritenuta colpevole di tutto. I provvedimenti introdotti dal regime per collettivizzare i campi portarono a un catastrofico calo della produzione agricola in tutta l’Unione sovietica, ma invece di comprendere gli errori compiuti, Stalin decise di requisire il grano e di ridurre quello lasciato a disposizione dei contadini per sopravvivere. «Il risultato» scrive Conquest «fu che nell’inverno del 1932-1933 le regioni destinate alla coltivazione del grano videro dilagare la carestia. In Ucraina morirono tra i 4 e i 5 milioni di persone, nel Caucaso del Nord e lungo il corso inferiore del Volga altri 2 o 3 milioni».

La storia di quegli anni spiega meglio di qualsiasi commento le ragioni profonde che dividono ucraini e russi, che pur provenendo dallo stesso ceppo slavo sono separati da 70 anni di comunismo. Anzi, di terrore comunista. Io capisco perché gli ucraini vogliono stare con l’Europa e con la Nato, non con Vladimir Putin. Credo non ci sia famiglia ucraina che non abbia il ricordo di quella carestia e di quella pianificazione dello sterminio. Un sesto della popolazione dell’epoca fu condannata a morte in nome dell’ideale marxista. La lotta contro l’invasione russa affonda dunque le radici in ciò che successe novant’anni fa. L’Unione sovietica fu un regime dispotico che tenne prigioniere per quasi un secolo centinaia di milioni di persone, ma ciò che accadde in Ucraina ha pochi paragoni.

Tuttavia, il libro di Conquest è interessante anche per un altro motivo. Nella parte finale affronta il capitolo del futuro dell’Europa. «C’è chi pensa che la Nato rappresenti ancora uno strumento adeguato, se non altro in senso militare, e possa in una certa misura sopperire alla debolezza in campo politico, o almeno costituire un impegno vincolante che unisce attivamente l’Europa nei limiti delle possibilità attuali. Dopo i fatti del Kosovo appare chiaro che dev’essere riorganizzata e rinverdita, facendo piazza pulita dell’incompetenza che regna negli ambienti politici e politico-militari, sia in America che in Europa».

Il libro è del 1999, ma in 23 anni non è cambiato niente. E la guerra in Ucraina dimostra che non solo la Russia è rimasta quella del «secolo delle idee assassine», cosa di cui non abbiamo mai dubitato, ma che l’Occidente dalla caduta del Muro di Berlino non ha fatto niente di ciò che sarebbe stato necessario e, soprattutto, non ha imparato la lezione dell’ex Jugoslavia e del Kosovo.

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