Sono poche le persone che in Italia sono impegnate in percorsi di deradicalizzazione di possibili e presunti terroristi. Una di queste ci ha raccontato il suo lavoro, tra difficoltà, piccoli segreti, e grosse sorprese.
«La deradicalizzazione può sembrare un’operazione aggressiva realizzata da una equipe o da uno psicologo, ma non è niente di tutto questo. Non è una riformulazione del pensiero, religioso e non solo di una persona. Ma la ridefinizione di un pensiero che porta ad un depotenziamento della pericolosità sociale. Si tratta quindi di un lavoro condiviso, proiettato sulla vita reale e concreta».
Tra i vari aspetti nascosti della lotta al terrorismo c’è anche questo, l’attività di chi sta a contatto con un potenziale attentatore lungo un percorso che lo porti a non essere più un pericolo, se non una persona diversa. A gestire questi tipi di progetti a Bari c’ la Prof Sabrina Martucci, docente all’Università degli studi di Bari, coordinatore del programma di deradicalizzazione Uniba- procura della Repubblica e Digos, e direttore del master in Terrorismo, prevenzione della radicalizzazione e integrazione interreligiosa e interculturale.
«Si è trattato di un lavoro condiviso, gestito in accordo con le autorità, in questo caso la Procura antiterrorismo e la Digos. La prima difficoltà è stata quella di rendere legale quello che a tutti gli effetti è una sorta di obbligo; la persona al centro di questo progetto infatti non era una volontaria o una che si è proposta, ma ci è stata indicata dalla Procura come soggetto interessante. La seconda problematica è che la radicalizzazione non è un reato. Ma un presupposto. Avevamo quindi la necessità di restare quindi nei limiti della legalità mentre organizzavamo questo percorso. Abbiamo così costruito questa prescrizione atipica aggiuntiva a quelle già esistenti (come il ritiro del passaporto, l’obbligo di dimora) nel quale il soggetto ha tutte le possibilità previste dalla legge di contraddittorio e difesa; si è trattato quindi di un lavoro nel pieno rispetto dei suoi diritti».
Un lavoro di squadra…
«Esattamente così. Il lavoro è di fatto un lavoro di equipe, che ha da una parte regole valide per tutti i soggetti ma che di fatto viene gestito e modificato seguendo l’idividuo in questione, ma non solo. Bisogna anche basarsi sulle persone che ci lavorano. Ogni componente del team infatti ha un suo carattere ed una sua empatia che diventa il segreto del successo o fallimento di un lavoro di questo tipo. La squadra impegnata in questa attività era composta da 4 persone che sono assolutamente preparate anche a livello religioso. Queste persone sono dei veri e propri mediatori, difficili da trovare ma che ora con un master apposito stiamo cominciando a formare».
Come avvenivano gli incontri? Ogni quanti giorni?
«Gli incontri erano settimanali e si sono susseguiti per tutti i due anni previsti dalla magistratura. Bisogna subito capire e conoscere la persona che ci si trova davanti. Abbiamo dei parametri «scientifici» che indicano quando un soggetto sia realmente pericoloso per la società oppure no: i siti che frequenta, quello che scrive, come reagisce ad esempio ad immagini o notizie di attentati in altri paesi. Ma poi davvero conta molto il rapporto che si crea, la fiducia. La prima parte del lavoro sta nel capire che cosa lo abbia portato alla radicalizzazione. Poi comincia il percorso vero e proprio che però non porta alla privazione dei suoi diritti, anzi. La prima cosa che abbiamo fatto con questo soggetto è stato intervenire e commentare la sua decisione di eliminare la barba. Abbiamo quindi lavorato su una rieducazione alla libertà, spiegando come non sia un problema indossare o portare anche a livello estetico dei simboli della propria religione».
Com’è stato il primo faccia a faccia?
«Il primo incontro è avvenuto in un clima di forte empatia. La prima cosa è stata quella di capire da parte nostra che non ci trovavamo davanti ad un «colpevole» ad una persona da criminalizzare ma un soggetto di diritti al quale riportare la fiducia e ricostruire una conoscenza critica senza mai ledere la sua libertà. Abbiamo notato da parte sua una crescita della fiducia nei nostri confronti continua ma, attenzione, non sono mancati episodi di dissimulazione. È capitato infatti che a parole diceva di aver compreso una cosa e condiviso ma in realtà era evidente che certi concetti non erano davvero sentiti. Cose che solo la sensibilità del mediatore riesce a percepire. Ad esempio non è stato facile in principio fargli capire che certe azioni sui social, alcuni commenti a certe immagini fossero quasi dei reati; poi però è arrivata la consapevolezza e la percezione di un uso corretto del web».
Diciamo quindi quasi più una seduta dallo psicologo che una tortura o un interrogatorio violento…
«Proprio così. La deradicalizzazione può sembrare un’operazione aggressiva realizzata da una equipe o da uno psicologo, ma non è niente di tutto questo. Non è una riformulazione del pensiero, religioso e non solo di una persona. Ma la ridefinizione di un pensiero che porta ad un depotenziamento della pericolosità sociale. Si tratta quindi di un lavoro condiviso, proiettato sulla vita reale e concreta».
Chi o cosa le dà la certezza che la persona alla fine del percorso sia cambiata davvero e non stia recitando?
«Non esiste certezza assoluta della riuscita di questo tipo di attività, abbiamo visto casi di simulatori perfetti. Ma a volte queste persone confidano al mediatore con cui hanno maggiore diffidenza di aver in qualche maniera scelta una strada pericolosa e sbagliata. Questo avviene in particolare nei soggetti che hanno un progetto di vita familiare da far partire».