Un pittore che, lungo il Novecento e fino a oggi, ha attraversato molte stagioni creative, sperimentando le suggestioni quattrocentesche come una personale «interpretazione dei sogni». In cerca del significato oltre l’esistenza. Ferrara lo celebra con una retrospettiva.
Già qualche anno fa, a Lecce, mi era accaduto di ritornare a riflettere sull’opera di Carlo Guarienti alla luce, o all’ombra, di alcune sue prove più recenti. Non resta traccia di quel discorso che pure aveva colto il sentimento profondo e la direzione dell’artista verso una sempre più estrema ricerca dell’essenza delle cose. La sua naturale vocazione metafisica si rivelava in una progressiva smaterializzazione della pittura fino alla perdita di ogni consistenza materiale e di ogni compiacimento pittorico. Una pittura d’ombra, e di ombre, senza corpo. Alcuni autoritratti di questi anni sono fantasmi, impronte di un corpo che non c’è più, con l’effetto di una sindone o di un negativo fotografico.
Anche gli oggetti perdono consistenza, anche gli utensili o le sagome di gesso o i reperti della vita quotidiana, frammenti di archeologia industriale per una visione distanziata delle cose e, altresì, del tempo. Ritrovando profili di oggetti senza memorie e senza funzione, avevo parlato di «archeologia del presente», di osservazione del quotidiano in una dimensione senza tempo. Da questa distanza Guarienti osserva. E anche quando dà corpo ai suoi fantasmi, passando dalla pittura alla scultura, non rappresenta ciò che vede, ma ciò che sente e la sua memoria impietrita. E le teste, i volti di donne che abitano la sua mente come ossessioni, non sembrano concepiti ma ritrovati come bronzi di una civiltà perduta.
Ripercorrendo come un cieco la strada di Alberto Giacometti, Guarienti insegue le essenze della forma. Pittura e scultura aspirano a raggiungere una identità immateriale. II pittore che, più di ogni altro, fu sensibile al vero o fu attento alla varietà del reale, allo stimolo di tutti i sensi, sembra aver concentrato le sue facoltà in una sola dimensione che travalica i sensi. La sua visione è, ormai, soltanto interiore.
A Guarienti sembra premere ciò che è oltre il reale, un «essere oltre» che dà significato alla nostra esistenza. Alla luce di questa nuova condizione, ritrovarsi a meditare sull’opera di Carlo suscita in me due reazioni contrastanti. Da una parte c’è la sensazione di essere davanti a una vicenda artistica perfettamente compiuta, per quanto vasta e straordinariamente varia e dotata della miracolosa proprietà di non cadere mai in contraddizione. Dall’altra, c’è l’impressione che la ricerca dell’artista veneto sia ancora in evoluzione per trovare registri interpretativi in grado di soddisfare ogni sua sollecitazione. Ci si sorprende nel sentirsi quasi inadeguati, con la stessa convinzione con cui prima ci si era compiaciuti di averne offerto una lettura originale.
Non possiamo escludere che la dialettica verbale sia inadeguata a restituire l’aspirazione all’ineffabile dell’attuale universo artistico di Guarienti. E non è una constatazione da interpretare come una dichiarazione di resa, perché l’estensione della sua ricerca pretende di non essere espressa in parole. Alle emozioni dei sensi predilige il rigore della ragione, alla ricerca di evanescenti verità, alla tranquilla oggettività delle esistenze, preferisce il segreto delle essenze. La sua radice resta legata al grande Quattrocento italiano, agli spazi di Carpaccio, dei ferraresi e di Piero della Francesca. Il primo grande dipinto di Guarienti, un San Gerolamo dall’inaudito vigore plastico ed espressivo (1946), è un olio su tavola, in tutto degno di un artista rinascimentale. Una pala d’altare priva di destinazione in un’epoca che non ha né saputo né potuto esprimere un’architettura religiosa, dotata di una tensione spirituale senza tempo rispetto a quella, datata, della celebratissima Crocefissione per il Premio Bergamo di Renato Guttuso. La lunga stagione successiva, almeno dal 1956 al 1976, da Nascita di una natura morta a Ritorno della sera, è un personalissimo viaggio nei territori del sogno. Un surrealismo parallelo, senza guide e senza maestri, in un ambiente ostile, pronto a legittimare il realismo, le ricerche sperimentali, gli aggiornamenti sull’astrattismo europeo.
Senza mai rinunciare alle tecniche tradizionali, Guarienti è stato un inesauribile sperimentatore. Negli anni Sessanta distacca gli intonaci dai muri per cercare stimoli al proprio desiderio di immagini, come Leonardo li cercava nelle macchie dei muri. Nei primissimi anni Settanta realizza i Rebus, a cavallo tra surrealismo e pop-art, che rompono la consueta bidimensionalità delle opere pittoriche. Alla fine del decennio, abbandonato il bestiario surrealista ispirato a Max Ernst e Aloys Zötl, elabora i Segnali e le Nature morte che annunciano il ritorno alla metafisica, adoperando superfici sabbiose e opache.
La pittura di Guarienti si risolve nell’irrisolvibile, nell’eterna, ambigua e sottilissima dialettica esistente tra l’immagine e i suoi significati. Ma l’artista è sempre insoddisfatto. Nella produzione seguente si sposta ancora, fissando, oltre il surrealismo, un’immagine neo-metafisica, neo-prospettica fino al limite dell’astrazione. Esemplare in questo senso Luca Pacioli del 1977, Composizione del 1978 e i vari Interno dello stesso anno. Toccati questi luoghi siderali, può anche riaffrontare la natura morta, guardando soprattutto Piero della Francesca e ammiccando, in qualche misura, a Balthus.
I capolavori di questo momento sono le Lettere da varie località d’Italia, qualcosa di simile, in pittura, alle città del silenzio di D’Annunzio. Questa ricerca può dirsi chiusa con l’assoluta, cristallina Stella del 1984, vero teorema della luce e dello spazio. Siamo ormai alle pure essenze. E quanto c’era di evocativo e di suggestivo nel Guarienti surrealista si scioglie definitivamente. In questa estrema rarefazione può dipingere una veduta, così com’è, ma tutta trasferita nel mondo delle essenze, senza atmosfera, vitrea e pietrificata. Ecco allora la Chiesa di Sant’Andrea a Venezia del 1982, Piazza del Popolo del 1984, o Anfiteatro e perfino la Natura morta sulla tela risparmiata. Quello che vuole dire è dichiarato con l’esplicito richiamo alla civiltà urbinate del Quattrocento nella Natura morta in un corridoio. Il problema dell’immagine non sta nel realismo o nell’astrazione ma nel metodo. In ogni fase della sua ricerca, Guarienti lo ha dimostrato. L’artista dà grande significato alle gradazioni, ai chiaroscuri, alle variazioni di luce.
Per esaltare questo effetto, riduce l’universo a elementi astratti, e toglie drasticamente la presenza dell’uomo. Tutto appare abituale ma in fondo irreale, come se fosse dotato di una verginità primordiale. Il primo sguardo dell’uomo sul mondo. Da questo momento il realista, il surrealista, il metafisico Guarienti inizia il suo percorso nell’ombra, dalla quale distingue l’essenza delle forme. E spesso sono proiezioni del suo corpo e della sua anima. Fantasmi. Dall’altra parte della vita. n
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