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Difendo la libertà di esprimere malumore

Difendo  la  libertà  di     esprimere  malumore

In un articolo Alain Elkann ha definito «lanzichenecchi» alcuni giovani dall’educazione molto discutibile con i quali ha condiviso lo scompartimento di un treno verso la Puglia. Insopportabile atteggiamento snob o immagine di una realtà sociale in degrado, la cronaca del giornalista-scrittore? Sta di fatto che ha provocato una levata di scudi moraleggiante, a cominciare dai redattori del quotidiano che ha pubblicato il racconto. E il critico di Panorama non accetta certe censure.


Non so cosa stia accadendo. Mia sorella mi scrive: «Oggi il mondo è implacabile». Il riferimento è alle critiche, tutte pretenziose e superficiali, a un innocuo articolo, anzi un racconto, chiesto, con suo e per suo divertimento, dal direttore de la Repubblica, Maurizio Molinari, ad Alain Elkann.

Un caso, soprattutto perché le critiche vengono da giornalisti della stessa testata. Al punto che il Cdr (Comitato di redazione) ha inviato una mail, a colleghe e colleghi, per prendere le distanze da Elkann, senza paura del ridicolo. Queste le osservazioni: «La redazione ha letto con grande perplessità un racconto pubblicato sulle pagine della Cultura del nostro giornale, a firma del padre dell’editore. Considerata la missione storica che si è data Repubblica sin dal primo editoriale di Eugenio Scalfari, missione confermata anche ultimamente nel nuovo piano editoriale dove si parla di un giornale «identitario» vicino ai diritti dei più deboli, e forti anche delle reazioni raccolte e ricevute dalle colleghe e dai colleghi, ci dissociamo dai contenuti classisti dello scritto. Per i quali peraltro siamo oggetto di una valanga di commenti critici sui social che dequalificano il lavoro di tutte e tutti noi, imperniato su passione, impegno e uno sforzo di umiltà».

Difficile leggere un comunicato più protervo e autoritario contro la libertà e la letteratura, evocando i principi di uno Stato etico, legittimato dalla «missione storica» espressa nel «piano editoriale» di un giornale che interpreta i supremi valori democratici, anche censurando i pensieri reconditi e malauguratamente espressi da uno scrittore. Come si permette di contraddire la «missione storica»?

A Elkann si rimprovera di esistere. È fatto così. Non è una sorpresa. Nell’articolo Elkann, che indossa «un vestito di lino blu e una camicia leggera» (in contrapposizione ai giovani sul treno, che hanno «t-shirt bianca e pantaloncini corti neri» e nessuno dei quali «porta l’orologio», orrore) tira fuori dalla «cartella di cuoio marrone» la «penna stilografica»; ma anche i giornali (Financial Times, New York Times, ovviamente Robinson) e À la recherche du temps perdu di Marcel Proust, che indica l’aristocrazia intellettuale del reprobo.

Condannato dalle sue stesse letture. Tutte letture proibite, e indice di snobismo. Guardatevene! I compagni di viaggio, nello stesso vagone, invece, parlano «di calcio, giocatori, partite, squadre, usando parolacce e un linguaggio privo di inibizioni». Cosa buona e giusta, nella repubblica di Repubblica.

Nessuno di loro sembra prestar attenzione al signore con i capelli bianchi, che legge, e scrive: «Arrivando a Foggia, mi sono alzato, ho preso la mia cartella. Nessuno mi ha salutato, forse perché non mi vedevano e io non li ho salutati perché mi avevano dato fastidio quei giovani «lanzichenecchi senza nome». I giornalisti de la Repubblica non hanno il senso del ridicolo. E subito parte la censura al padre del padrone. Sul treno per Foggia con i giovani «lanzichenecchi», si intitola infatti il racconto in prima persona, che vede Elkann «vittima» di quei giovani un po’ chiassosi che lo hanno infastidito per qualche ora e, con lui, questo è il problema, il padre dell’editore di Repubblica e presidente del gruppo Gedi.

Una schizofrenia analoga a quella di Sgarbi (lo conosciamo l’incontinente!), che è anche il sottosegretario alla Cultura. Per i custodi della moralità non è tollerabile. Non ci si può infastidire. Neppure ascoltando battute dagli stessi ritenute, in altri casi, sessiste.

«A un certo punto, poco dopo Benevento, mentre erano sempre seduti o quasi sdraiati ai loro posti, ammassando nei vari cestini per la carta straccia lattine di Coca Cola o tè freddo, uno di loro ha detto: “Non è che dobbiamo stare soli di sera: andiamo a cercare ragazze nei night”. Un altro ragazzo più piccolo di statura e con il viso leggermente coperto di acne giovanile ha detto: “Macché night! Credetemi, ho esperienza. Bisogna beccare le ragazze in spiaggia e poi la sera portarle fuori e provarci. La spiaggia è il posto più figo e sicuro per beccare”. Quella conversazione sulle donne da trovare era andata avanti mentre io avevo finito di scrivere sul mio quaderno ed ero immerso nella lettura di Proust. Loro erano totalmente indifferenti a me, alla mia persona, come se fossi un’entità trasparente, un altro mondo».

Uno scrittore esprime il suo malumore. Nessuno si è preoccupato del malumore di segno opposto degli stessi giornalisti per il mio turpiloquio, per il linguaggio privo di inibizioni, manifestando le stesse riflessioni sessiste dei miei colleghi giovani che parlano di cercare ragazze, in una serata al Maxxi, stigmatizzata in un’altra lettera da una donna infastidita. Io sono stato rimproverato per gli stessi ragionamenti dei giovani, oggi legittimati contro Elkann.

Quello che allora era «sessista», ora è legittimo. Quei ragazzi non sono sessisti. Hanno ragione, sono fatti così: è Elkann che è classista. Improvvisamente le parolacce vanno bene. E anche le battute sulle donne. Pensavo che il sessismo» non avesse età. Ma Elkann, questa volta, non si deve permettere quello che la sua «redazione», proprio quella di Repubblica, si è permessa contro di me. Per un codice morale stagionale. Con la differenza che Elkann ha fatto letteratura.

Mai letto Paul Léautaud, Guido Ceronetti, Antonio Delfini, Tito Balestra, Giovanni Testori, il Sillabario di Goffredo Parise? Il malumore è un genere letterario. Lo praticava su Repubblica anche Eugenio Scalfari, all’insaputa dei giornalisti di Repubblica. La cosa grave, oggi, imperdonabile, è la censura moralistica a uno scrittore. Elkann ha detto la verità, e ha raccontato il suo legittimo disagio. La dissociazione dei giornalisti è una grottesca forma di censura. Lo registra anche, indignato, il direttore dell’Istituto italiano di cultura a New York, Fabio Finotti: «Insopportabile segno di classe leggere (per di più Proust), scrivere, pensare, tacere. La vera rivoluzione è chiasso ignoranza e intransigenza, e i nuovi Robespierre sono i giornalisti, anzi gli opinionisti, che considerano la cultura un insopportabile vezzo da snob. Quel “contenuti classisti” è straordinario per idiozia e ideologia. Straordinario e rivelatore del nuovo conformismo. Il vero fascismo è il loro».

Mi scrive, genuinamente, un amico: «Non si capisce il perché debba aver inquietato gli ipocriti questa semplice e intelligente cronaca di viaggio… che ho letto solo ora, peraltro…».

E mi invia una immagine eloquente dal suo treno, commentando: «Questo uno dei soggetti del treno regionale in cui sono tornato ieri da Venezia. Con brutti ragazzotti simili, mezzi ubriachi, che hanno fatto casino tutto il tempo. Ho cambiato carrozza, per non… Comunque minimo decoro e rispetto del prossimo sono oramai una chimera nelle masse. Tempi davvero barbari…».

Razzista, classista anche lui? A questo punto penso che oggi non sarebbe consentito a un grande regista come Luchino Visconti realizzare un film come Gruppo di famiglia in un interno, dove si riproduce una situazione simile a quella descritta da Elkann. Cinquant’anni fa si poteva farne un grande film, ispirandosi al pensiero di un saggista ritenuto tra i grandi del Novecento e venerato, e pieno di malumori, Mario Praz, che scrive ne La casa della vita: «Da un’ispirazione profetica doveva essere animato Luchino Visconti quando (a sua stessa confessione in interviste sui giornali) prendendo le mosse dalle mie Scene di conversazione pel suo film Ritratto di famiglia in un interno metteva a protagonista un vecchio professore assistito da un’anziana domestica (qui evidentemente alludeva a una situazione simile alla mia), ma anche immaginava che nello stesso casamento venisse ad abitare una banda di giovani drogati e dissoluti. Che è pressappoco quello che è accaduto, ma soltanto dopo la presentazione del film, nel palazzo dove abito. Il film, come potei constatare, è rispettoso verso il mio sosia, e forse esagera nei riguardi dei coinquilini, di cui dirò solo che, venendo richiesto dal più notorio di essi, della dedica di un mio libro, vi scrissi: “Per (seguiva il nome), vicino di casa, lontano d’idee”».

Nel 1974 era possibile. Era una storia di vita, come quella raccontata da Elkann, era un confronto di generazioni, di modi di essere, di modi di vivere. Per la stessa cosa, oggi, Alain Elkann viene insultato.

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