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L’istinto di un cacciatore di bellezza

L’istinto di un cacciatore di bellezza

È stato grandissimo conoscitore, collezionista e «suggeritore» d’arte Ferdinando Peretti, scomparso pochi giorni fa. Con una profondità e una passione che l’hanno portato a scoprire e inseguire opere straordinarie. Perché, quando gli altri ignoravano, lui aveva la capacità di vedere.

Improvvisamente finiscono storie che non sono solo la vita di un uomo, ma testimonianze, avventure, ricerche che non sono trasmissibili, ma appartengono alla dimensione del caso, dell’istinto, dell’occasione, come la fortuna in attesa di essere afferrata per i capelli dall’uomo virtuoso. Tutto avviene in un lampo, come la battuta all’asta, che non ha tempo (se non nella premeditazione), ma istante.

Chi ha vissuto nel mondo dell’arte sa che alcune esperienze, e alcune esistenze, sono irripetibili, non si possono riprodurre come la sapienza di un maestro nella scuola. Possiamo studiare ciò che hanno scritto Maurizio Marini e Maurizio Fagiolo dell’Arco, ma ciò che ha rivelato loro, senza teorie, con apparizioni e scoperte, un conoscitore implacabile come Nando Peretti, è irriproducibile, alieno da un metodo perché è un istinto, una rabbia, un miracolo dal buio della storia. Ciò che fanno uomini di tale natura ha l’efficacia di un gesto, come le doti di un atleta che ha nel suo corpo l’energia per vincere. E non lo ha rivelato, indirettamente, che a pochi, non trasmettendolo a nessuno, come chi abbia doti paranormali. Come un mago, senza inganno, appare allora chi abbia certe doti, e veda quello che altri non vedono. E, quando finisce, tutto si perde.

Così è accaduto con la scomparsa di un amico, raro e discreto, capace di grandi odi e nemicizie. È difficile parlarvi di uno che non avete conosciuto, né direttamente né indirettamente, perché non è stato un uomo pubblico, anzi era un uomo segreto, ma importante per l’Italia, per il sapere e quello che ha insegnato, in un mondo in cui le istituzioni sprecano danaro per recuperare opere fasulle, i magistrati aprono inchieste su questioni inesistenti, mentre il paesaggio italiano viene devastato, le città sfigurate, i musei ospitano improbabili artisti cosiddetti contemporanei, come se l’essere contemporanei fosse una categoria e non un dato cronologico.

Nando Peretti – di lui voglio parlare – era sensibile e infallibile; era prima di tutto un uomo intelligente, ed era l’ultimo conoscitore di una categoria che verrà estinguendosi tra breve, e di cui ho avuto l’onore di far parte in extremis.Peretti aveva conosciuto e visto all’opera e ascoltato i principali storici dell’arte che avevano un rapporto fisico con le opere, persino olfattivo: Giuliano Briganti, Federico Zeri, Mina Gregori, Carlo Volpe, Alvar González-Palacios, Nicola Spinosa. C’erano ed erano bravi. Hanno cambiato e arricchito la storia dell’arte.

Nando aveva, in dialogo con loro, intuizioni lampanti, basate su una conoscenza e una quotidiana ricerca fatta di studio ed esperienza. Era superbo e umile. Superbo nel capire, umile nell’insegnare. Aveva studiato a Roma con Renato Guttuso pittura, e con Libero de Libero storia dell’arte. Giovanissimo andò a Parigi con una borsa di studio dell’Accademia di Francia. Al ritorno a Roma fu nel gruppo della Scuola romana con Franco Angeli, Tano Festa, Mario Schifano, Cesare Tacchi. Agli inizi degli anni Sessanta partì per Londra, iniziando una pionieristica attività di antiquario, e imponendosi ben presto nel mercato internazionale dell’arte antica.

Attivo con grandi antiquari come Julius Weitzner e Andrej Ciechanowiecki (Heim Gallery), socio con Jacob Rothschild negli anni Settanta della prestigiosa Colnaghi Gallery, la più antica galleria antiquaria del mondo, è stato fondatore e direttore della gloriosa Walpole Gallery (Londra, 38 Dover Street). Aveva intorno a sé amici che si consideravano non soci ma allievi. Ne avvertivano la superiorità. Ne traevano suggerimenti, non sempre comprendendoli. Lo ammiravano e lo rispettavano. Ne conoscevano l’intelligenza fulminante, l’abilità e la furbizia che, unite insieme, producevano un bene comune, ben diverso dalla stessa formula che si usa per ipocrisia politica. Bene comune ha a che fare con i beni: e cosa è «bene comune» più di un’opera d’arte, soprattutto se nuova, scoperta, offerta agli studi? Di quei «beni» Nando è stato ricercatore, studioso, cacciatore, per tutti i musei del mondo.

Io lo conobbi e lo frequentai, tra Londra e l’Italia, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, con un altro talento che ne apprezzava il merito e ne traeva benefici: Mario Lanfranchi, anch’egli scomparso da poco, grande collezionista e uomo educato a vivere come in un teatro, a metà strada tra D’Annunzio e il mondo del cinema. E ho molto frequentato, ammirandone le intuizioni e il talento, l’amore sensuale per le opere d’arte, Gilberto Algranti. Più tardi – tra i quadrari – si fecero spazio Giorgio Baratti, Marco Voena, Fabrizio Moretti. Ma nessuno è stato come Nando Peretti. Leggendario per l’abilità, la velocità e la quantità di opere acquistate. I dipinti straordinari che aveva raccolto, e conservato piuttosto che venduti, erano in depositi (raramente) frequentati da amici collezionisti e studiosi ammirati.

L’istinto di un cacciatore di bellezza
Ferdinando Peretti (Franco Bocchino/Nuova Arte Fotografica)
L’istinto di un cacciatore di bellezza
Guido Reni, Santa Caterina da Siena ,1640 circa. (Collezione Peretti)
L’istinto di un cacciatore di bellezza
Mattia Preti, San Francesco in estasi, 1650-58. (Collezione Peretti)
L’istinto di un cacciatore di bellezza
Gian Giacomo Sementi, Porzia, 1630-35. (Collezione Peretti)
L’istinto di un cacciatore di bellezza
Giovan Battista Beinaschi, Due apostoli ,1675-80. (Donazione Peretti)
L’istinto di un cacciatore di bellezza
Francesco Trevisani, San Giovanni Evangelista, 1730 circa. (Donazione Peretti)
L’istinto di un cacciatore di bellezza
Veduta di Palazzo Chigi con il parco e Ariccia.

Negli ultimi anni aveva portato alcuni dei suoi più interessanti ritrovamenti ad Ariccia, dove resteranno, sotto l’amorosa vigilanza di Francesco Petrucci, conservatore e direttore di Palazzo Chigi che, agli intatti arredi del principe Agostino, il migliore acquisto dello Stato negli ultimi cinquant’anni, aggiunse le collezioni di Fabrizio Lemme, di Maurizio Fagiolo dell’Arco, Oreste Ferrari. Io, nel corso degli anni, dopo le visite a Londra, alla casa e alla galleria, sono andato a trovarlo più volte in via Margutta, nel centro di Roma ma isolatissimo, vedendo approdare tra i suoi computer e le sue carte capolavori sconosciuti, fra i quali ammiccava un mai pubblicato Caravaggio.

Ricordo un San Gerolamo, intensissimo, di commovente verità, di Simone Cantarini, rarefatte ed eleganti invenzioni di Agostino Cavallucci, una cui sospirosa Maddalena generosamente mi donò. E poi i grandi maestri: Tiziano, Tintoretto, José de Ribera, Battistello Caracciolo, Simon Vouet, Matthias Stomer, Carlo Saraceni, e vari caravaggeschi, Guido Reni, Rubens, Baciccio, Massimo Stanzione, Giovanni Lanfranco, Bernardo Cavallino, Luca Giordano, Francesco Solimena.

Alcune passioni diventarono ossessioni: inseguì e acquistò più di cento lavori di Ippolito Caffi, tanto da farne una mostra – e una monografia – solo con i suoi quadri. Una volta a Londra batté contro di me a un’asta un ritratto di Tiziano. Non glielo lasciai. Era un uomo pieno di vita, di energia. A un certo punto fu colpito da un cancro cattivo che lo limitò nei movimenti e nella parola. Non era facile talvolta capirlo. Ma resistette e andò avanti mantenendo l’intelligenza lucida, continuando a stanare capolavori. Quando non se ne vedeva o conosceva l’acquirente si poteva dire: «È stato Nando».

Lui vedeva quello che altri non vedevano. E insegnava a vedere. Senza parere. Così è grande il rimpianto di quanti lo hanno frequentato, lo hanno accompagnato, tentato di carpirne i segreti, si sono formati, hanno vissuto, condividendo il suo generoso entusiasmo, come Francesco Petrucci, come Giuseppe D’Angelo, Tommaso Ferruda. Non mi pare di dover aggiungere altro, e, benché io fossi da lui più distante di loro, in ogni caso apprezzavo, di Nando, il metodo, la generosità, il suggerimento e il riconoscimento, nel mettere a fuoco l’autore di un dipinto, in una caccia senza fine che ora continueremo senza di lui. Perché la sua felicità, la sua ansia e la sua vita proseguano in noi.

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