Nel disegno come nella pittura, Sergio Sarra sa cogliere l’essenza del reale, ne illumina la parte nascosta. Non riproduce meccanicamente oggetti e presenze ma va in cerca della loro idea. Le sue «nature» ora dialogano con le sculture di Palazzo Altemps a Roma.
Nella solitudine del suo studio a Manoppello, Sergio Sarra collauda il suo rapporto con lo spazio e con la coscienza espresse in una geometria variabile che esclude la simmetria perché indica un percorso del cuore. La sua è una esaltazione del disegno, in una tradizione di cui l’artista si sente erede, escludendo ogni cedimento sentimentale. Il pensiero definisce i confini di un labirinto che ha le sue ascendenze nella pittura bizantina, in Rosso Fiorentino, in Piet Mondrian, in Osvaldo Licini, in Valerio Adami, in Achille Perilli. Non gli interessa la figurazione, ma una astrazione emozionale e allusiva. Sarra non dipinge paesaggi, li allude. Sta solo, vicino al cielo, in una scatola magica, e riordina idee in segni, con sobrietà e pudore.
Non vuole stupire, come se disegnare fosse esibire, mentre egli invece lo intende come «pensare». Il suo è un segno che pensa, animato, vibrante, senza compiacimento. A Sarra interessa l’essenziale, che Laura Cherubini chiamò non metafisico, ma autobiografico, e che rifugge dal mistero e dal trascendente: «Sergio ha lavorato come sempre indirettamente, lateralmente al tema, evocando luoghi attraverso un passaggio più che metafisico, autobiografico… Gli ambienti con la libreria, la scrivania, la finestra… hanno concomitanze architettoniche. La pittura, il colore diluito, va a riempire gli spazi tra le linee del disegno. I dipinti presentano pentimenti, cancellazioni. Se Library, table and window ci parla di un “interno”, Landscape ci racconta un “esterno” con la vetta di un monte, nuvole, colline e un vigneto. È un disegnato stratificato, dal vero, dove le tracce precedenti non si cancellano mai del tutto».
Sarra ha catturato l’essenziale dal suo vicino Ettore Spalletti, traducendo in linee anche la luce. Compito dell’artista è misurarsi con l’assoluto immanente. Qualcosa di simile a quello che scrisse Licini: «Dal reale all’astratto. E dall’astratto io me ne sto volando adesso, in foglie e fiori, verso lo sconfinato e il soprannaturale. Certo, la solitudine mi è di grande aiuto». Difficile è anche parlarne, perché il suo segno, come pensa, parla. E chiede attenzione e contenzione alle interpretazioni di un critico, inevitabilmente approssimative. I confini ce li dice lui.
«Nostro compito è indicare una geografia dove collocarlo, dove identificarlo, come io ho tentato di fare», scrive Lorenzo Benedetti. «Anche per consentirgli di fuggire in tempo, prima di essere catturato. Ed è per questo che Sarra ha coltivato il disegno. Per essere libero. In Sarra ci troviamo di fronte ad una intensa sinteticità dal punto di vista del processo formale a vantaggio di una maggiore concentrazione al dato concettuale. […] L’animale, i paesaggi e i volti vengono stilizzati fino al limite del riconoscibile».
Disegnare è vedere dentro, non davanti, la realtà; è una esperienza conoscitiva, non riconoscitiva. Il mondo esiste, possiamo riprodurlo, fotografarlo; ma pensare il mondo è altro. E Sarra ne è consapevole: «Sto dipingendo degli iceberg, una serie di iceberg. Ognuno di essi è un disegno dal vero, anche se per i suoi caratteri può sembrare un automatismo. Gli iceberg sono forme vaganti e solitarie in continua trasformazione non percepibile, contengono altre forme e immagini remotissime. La parte sommersa di queste montagne di ghiaccio è quasi del tutto invisibile ed è in rapporto di equilibrio e galleggiamento con quella che emerge. Quando questo rapporto cessa, l’iceberg può rovesciarsi fragorosamente e mostrare la sua parte rimasta nascosta per millenni».
Disegnare è vedere quello che non c’è la parte nascosta del mondo, il silenzio delle cose, ciò che resta oscuro. Sarra va oltre il vedere, che pure è necessario, per ridurre la realtà a una semplificazione di segni che parlano di una realtà interiore. È evidente l’affinità con la concezione di Mondrian: «Costruisco combinazioni di linee e di colori su una superficie piatta, in modo da esprimere una bellezza generale con una somma coscienza. La Natura (o ciò che ne vedo) mi ispira, mi mette, come ogni altro pittore, in uno stato emozionale che mi provoca un’urgenza di fare qualcosa, ma voglio arrivare più vicino possibile alla verità e astrarre ogni cosa da essa, fino a che non raggiungo le fondamenta (anche se solo le fondamenta esteriori!) delle cose… Credo sia possibile che, attraverso linee orizzontali e verticali costruite con coscienza, ma non con calcolo, guidate da un’alta intuizione, e portate all’armonia e al ritmo, queste forme basilari di bellezza, aiutate se necessario da altre linee o curve, possano divenire un’opera d’arte, così forte quanto vera».
Per Sarra dipingere è entrare in un labirinto che ha a che fare con la forma del cervello: le pieghe più profonde prendono il nome di «scissure». Nella corteccia umana ci sono quattro scissure, due laterali e due centrali che rappresentano i punti di riferimento principali della corteccia umana. È da lì che viene la percezione del mondo. È un «a priori» da cui parte la nostra visione della realtà. Sono queste le scissure di Sarra.
Ogni casa, ogni montagna, ogni albero è un’idea. Non esiste il paesaggio, ma l’idea del paesaggio, e anche l’emozione è un’idea. Tutto è logos. Tutto è idea, e il segno la rappresenta. Era così anche nei dipinti e nei graffiti preistorici. A Lascaux, ad Altamira, nelle pitture rupestri dell’Akakus libico. Così disegno per Sarra vuol dire origine del segno. Tornare all’inizio: una vera e propria prima visione. n
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