L’impossibilità di tornare tra i banchi, che dura da un anno, è una ferita insanabile per gli studenti. Che domani avranno più difficoltà nell’accedere al mondo del lavoro. Eppure per il governo, che ripete il mantra di come le aule siano un luogo sicuro, il destino di un’intera generazione non è una priorità.
Eugène Ionesco nella sua più famosa pièce ci lascia un’indimenticabile battuta: «E la cantatrice calva? Si pettina sempre alla stesso modo». Meraviglia del teatro dell’assurdo e metafora perfettamente calzante per descrivere ciò che succede alla nostra scuola a singhiozzo. Chiusa, aperta, richiusa. Modalità diverse per ogni regione e tra due settimane probabilmente ricominceranno le serrate, mentre i licei resteranno in didattica a distanza forse per mesi, il tutto in una melma grottesca che sta tracimando verso una catastrofe educativa e sociale. Non bastasse: ombrellate tra genitori pro e contro le lezioni in video, studenti in piazza a protestare per il diritto allo studio, professori negazionisti, madri sull’orlo di una crisi di nervi, presidi che non hanno più lacrime e il ministro Lucia Azzolina che ammette: «La Dad non funziona più, sono preoccupata».
Commedia surreale se non fosse che è la vita dei nostri figli. «È una ferita senza pari a una generazione. L’urgenza sarebbe aiutarli, invece si parla di aprire o meno lo sci. Nelle priorità della vita questo dovrebbe venire dopo la scuola» osserva Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. «Non abbiamo una misura di quanto siano calati i livelli di apprendimento, perché quest’anno abbiamo rinunciato ai test Invalsi. Dovremo aspettare l’estate per una fotografia corretta. Ma sulla base degli studi fatti in Olanda e Stati Uniti sappiamo che le lacune accumulate nel lockdown vanno dal 30 al 50%».
I ragazzi perderanno quasi due anni di lezioni e questo li porterà ad avere maggiori difficoltà all’università e nel lavoro, con conseguenze drammatiche. «Dal punto di vista dell’impatto economico abbiamo fatto una stima: il costo arriva a 10 punti di Pil» conclude lo studioso. Non si parla più di dispersione scolastica, ma i dati sono preoccupanti: 14,6% secondo Eurostat. Osserva Daniele Grassucci, fondatore e direttore del portale Skuola.net: «Una scuola depotenziata, dove si è ampliato il divario tra ceti sociali: connessione, dotazioni tecnologiche, spazi domestici sottolineano le differenze fra studenti. Ci volevano turni veri, ma si dovevano mettere in gioco parecchi soldi per tenere aperte le scuole, pagare gli insegnanti, raddoppiare i bidelli. Anche aumentare i mezzi pubblici costa e ci vogliono mesi, anni».
Perché troppo a lungo siamo stati in silenzio, mentre per cenone e vacanze in montagna ci sono state levate di scudi? «Bisogna ristabilire le priorità» dicono Francesca Fiore e Sarah Malnerich, ossia mammadimerda, le madri blogger più seguite d’Italia. «Ragazzi abbandonati a se stessi, in casa come agli arresti domiciliari, molti spariti dai radar della scuola, un’impennata di disturbi alimentari, autolesionismo, depressioni. Si sono rinchiusi come hikikomori. Sentono che non hanno una prospettiva. Non c’è lungimiranza, uno sguardo al futuro».
Forse sarebbe stato importante fare screening seri, un tracciamento della popolazione scolastica, le mascherine FFP2 oppure i pooled testing, ossia un test unico per ogni classe, come fanno le aziende. Non nominategli la Dad: «Ha la dignità di una foglia di fico. La scuola è un presidio di sanità mentale, un’aiuola di felicità, l’ancora cui aggrapparsi per avere una possibilità nella vita. Invece siamo il Paese che le ha tenute chiuse più a lungo e nel frattempo nulla è stato fatto. Quattro banchi a rotelle e a posto così» concludono le seguitissime blogger.
Alberto Pellai e Barbara Tamborini, coppia di psicoterapeuti dell’età evolutiva, sono preoccupati: «Dai racconti di genitori e insegnanti si evince come i nuclei più deboli e problematici siano destinati a perdersi» sottolinea Tamborini. «Una fetta significativa ha smesso di studiare. Ma questo stato di incertezza toglie le forze a tutti. I ragazzi hanno bisogno di sentire il valore del loro impegno, invece sono sempre più tristi, vuoti, affaticati, soprattutto le ragazze, che a differenza dei coetanei non si annullano nei videogiochi. A volte in casa sento un silenzio perfetto e mi stupisco piacevolmente. Invece è sbagliato: vuol dire che sono chiusi in camera, attaccati al computer. Non dobbiamo lasciarli così. Si perdono e ci perdiamo anche noi» sostiene la psicopedagogista. «Riaprite le scuole, gli oratori, dove ci sono adulti che danno regole. Altrimenti si formerà un vuoto alla fine più pericoloso, di cui tutti ne pagheremo le conseguenze».
Si interroga Pellai: «Senza una direzione certa, sospesi a un destino che resta incomprensibile e imprevedibile, gli adolescenti rischiano forte sul fronte della motivazione. La sospensione protratta a lungo ruba la percezione del futuro». Racconta Maia P., 16 anni, studentessa di liceo classico: «Alcuni amici mi hanno detto: “Se non si torna a scuola mi butto dal balcone”. Svegliarsi e trascinarsi in pigiama davanti al tablet per trascorrerci cinque ore da soli è da attacco di panico».
La pandemia ha squarciato il velo del tempio. «Ha operato come un stress test: le cose che andavano male si sono viste di più» riflette Antonello Giannelli, presidente nazionale dell’Associazione presidi. «Locali scolastici angusti e poco idonei ad accogliere i ragazzi distanziati. Molte scuole non sono dotate di cablaggio ad alta velocità e la tecnologia entra a fatica, manca la ventilazione e non ci sono impianti di filtraggio dell’aria. Abbiamo suggerito di dotare tutti gli istituti di un sistema di scuolabus. Avremmo limitato i problemi dei trasporti».
Gli insegnanti hanno cercato in ogni modo di arginare questa Caporetto trovandosi spesso in una situazione da circo, come racconta una professoressa che insegna in Trentino alle medie: «Ogni ora le finestre vengono aperte per il ricambio dell’aria, ieri c’erano -12 gradi, i ragazzi stavano in classe con cappello e giacca a vento. Per andare in bagno si fa un percorso a zig zag, così per l’intervallo dove le classi non si devono mai incontrare. Niente laboratori né lezioni di canto. Lo strumento musicale non è più il tradizionale flauto, ma l’ukulele».
All’uscita gli insegnanti si sgolano per tenerli distanziati: «Sono 400 ragazzini delle medie e 600 delle elementari». Mission impossible. Enrico Galiano, scrittore e professore in una media vicino a Pordenone, appena rientrato si è trovato quattro alunni in quarantena. Ma a preoccuparlo è ben altro: «La marea del negazionismo si è alzata notevolmente e ha coinvolto non solo i genitori, ma anche gli insegnanti. Come può un professore negazionista o contro i vaccini insegnare in modo corretto?». Gli studenti più fragili scivolano via, le classi pollaio non aiutano una didattica ormai obsoleta che fa fatica a trasferirsi nel mondo digitale. «Neanche il maestro Alberto Manzi ce la farebbe con 30 allievi in didattica a distanza. La scuola non è mai stata messa al primo posto, siamo fermi a una mentalità per cui ciò che non porta consensi si può posporre».
Mila Spicola, insegnante e pedagogista, si occupa da anni di politiche scolastiche: «Tutto è stato affrontato con confusione. Da aprile a settembre in tanti abbiamo chiesto lo screening a tappeto, monitoraggio a campione dei dati per considerare tutte le variabili. Ripetere che la scuola è sicura è una dichiarazione di principio, ormai un mantra, che non mi sento né di supportare né di negare». In questo clima disperato una cosa è chiara a tutti: qualcosa deve cambiare.
«Ci dovrà essere una nuova gestione» suggerisce Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro. «Il dibattito non può arenarsi se si rientra un giorno dopo, se no è la fine. Dobbiamo pensare a creare una scuola diversa, un luogo di formazione sempre collegato. Il tema non è in presenza o a distanza, piuttosto saremo in grado di dargli qualcosa di diverso, un’occasione di crescita, un luogo inclusivo. Utilizzare internet è d’obbligo, domani nessuno gli dirà mai di spegnere il computer, le grandi aziende chiedono già i curriculum in video e se ci sarà un posto di lavoro, sarà probabilmente sul web. Se invece pensiamo che sia giusto interrogarli bendati, riempirli come anfore, proporgli lezioni uguali a quelle che faceva mia nonna, maestra del paese, se diremo: “Che bello sono tornati a scuola” e tutto resterà come prima, ecco non abbiamo capito niente». Ma i risultati di una vera riforma si vedrebbero solo tra 20 anni. Certo troppi per una politica in affanno. Meglio continuare a fare come la cantatrice calva.
