In Italia, le auto a batteria rappresentano appena il 4,4 per cento del mercato delle immatricolazioni. E ci sono molti che dopo averla acquistata la restituiscono. I pentiti dell’elettrico sono, infatti, un fenomeno che si va diffondendo
L’amministratore delegato di una grande azienda mi racconta di aver restituito l’auto elettrica che la società gli aveva messo a disposizione al momento dell’assunzione. Le ragioni che lo hanno portato a prendere la decisione di tornare a una vettura con motore a combustione me le elenca in ordine d’importanza. L’autonomia viene prima di tutto. A differenza di ciò che dichiara la casa costruttrice, la batteria consentiva di percorrere meno chilometri di quanti se ne sarebbe aspettati. Si sa che le misurazioni per stabilire quanto dura una ricarica vengono fatte a velocità costante e moderata, senza mettere in conto partenze e accelerazioni, l’uso del condizionatore d’aria o dei tergicristalli e anche delle luci, però quando si è messo al volante dell’auto il top manager è rimasto comunque stupito nel veder calare rapidamente la capacità della batteria. Poi, tra i motivi che lo hanno indotto alla restituzione, indica la carenza di punti di ricarica. Sono ancora troppo pochi, si lamenta, e quelli che trovi spesso sono fuori uso oppure occupati, anche da mezzi che non sono elettrici e usano la piazzola come area di parcheggio senza che nessuno faccia nulla per impedirlo. In più, nonostante le case costruttrici e le aziende elettriche parlino di ricariche veloci che consentono di ripartire dopo essersi sorbiti un caffè, ogni volta doveva mettere in conto uno stop che andava dai tre quarti d’ora all’ora. Dunque, ha deciso che al momento l’elettrico non faceva per lui e ha riportato la vettura al concessionario. E come lui hanno fatto altri colleghi ai quali la sua azienda aveva offerto il «fringe benefit» a zero emissioni.
Sebbene sulla grande stampa se ne parli poco, preferendo dare spazio alla decisione della Ue di mandare in pensione il motore termico per aiutare l’ambiente, i pentiti dell’elettrico sono un fenomeno che si va diffondendo. Settimane fa, a introdurre l’argomento ha pensato il direttore di Quattroruote, Gian Luca Pellegrini. Il capo della più importante testata del settore sui social ha parlato di disincanto della gente verso le auto elettriche, «che invece di diminuire cresce e le macchine non si vendono». In effetti, il trend di nuove vetture con la spina non sembra decollare. Nonostante il battage politico-promozionale, in Europa ogni cento vetture vendute, quasi il 40 per cento continua ad avere il motore a benzina, mentre un quarto delle macchine immatricolate sono ibride, con una batteria che però risulta spesso secondaria. Dunque, le full electric al momento rappresentano solo il 15 per cento del mercato. E se si guardano i dati italiani, la quota è ancora più bassa, nel senso che le auto a batteria rappresentano appena il 4,4 per cento del mercato delle immatricolazioni e quelle ibride il 5,4. Percentuali contenute, che sebbene in crescita non fanno immaginare un cambiamento sostanziale a breve, soprattutto se fra coloro che hanno scelto di lasciare il motore termico per quello a zero emissioni si registrano i primi pentimenti.
Tuttavia, al «post» di Gian Luca Pellegrini, in cui si descriveva il disincanto dei consumatori e si denunciava una specie di Teslagate che nasconderebbe gli inciampi della multinazionale creata da Elon Musk, è seguita una vivace discussione. Manager ed esperti si sono lanciati in previsioni che non lasciano ben sperare sul futuro dell’industria automobilistica. C’è chi come Andrea Taschini, una vita nel settore della componentistica dell’automobile, prevede un futuro di vetturette cinesi a prezzi economici, bassa autonomia e lunghi tempi di ricarica, con una riduzione consistente delle vendite delle auto europee e conseguenti effetti sull’occupazione. E chi prende atto che per quanto il mercato delle elettriche non registri grandi balzi in avanti, tornare indietro ormai sia quasi impossibile, perché i produttori hanno spostato i loro investimenti dal motore a combustione a quello a zero emissioni e non hanno alcuna possibilità di cambiare a breve strategia.
Dunque, sebbene ormai anche Ursula von der Leyen si stia rendendo conto che la sfida per trasformare la mobilità in Europa rischi di lasciarci senza industria automobilistica, facendo un gran favore alla Cina, la strada sembra tracciata, con tutte le conseguenze del caso. Però, nonostante sui social si dibatta del futuro di gruppi che per oltre un secolo hanno caratterizzato lo sviluppo dell’economia del Vecchio continente (Fiat per prima) e nelle chat dei consumatori si segnalino i problemi del passaggio all’elettrico, elencando difficoltà che non sono molto diverse da quelle messe in fila dall’amministratore delegato pentito, la politica non sembra accorgersi di nulla, né dunque sembra intenzionata a fare alcunché. Un Titanic chiamato Ue procede la sua corsa, verso un iceberg che nel 2035 rischia di farlo colare a picco.
