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Salvini si gioca la leadership

Salvini si gioca la leadership

L’editoriale del direttore

Il banco di prova sono le elezioni regionali. Se la sinistra perdesse due o forse tre delle regioni al voto, per il governo sarebbe difficile resistere. Ma se l’assalto alle regioni rosse fallisse o riuscisse solo a metà anche la poltrona di Salvini sarebbe meno stabile.


E’ passato un anno da quando, in pieno agosto, Matteo Salvini pose fine all’alleanza con i Cinque stelle. All’epoca, la Lega era in rapida ascesa, forte di un successo alle elezioni europee che l’aveva fatta balzare al 34 per cento, trasformandola nel primo partito italiano. Il movimento fondato da Umberto Bossi, in oltre trent’anni di storia, non era mai riuscito a sfiorare simili percentuali. Anzi. Quando il Capitano leghista lo ereditò da Roberto Maroni, subentrato al Senatur dopo lo scandalo dei soldi investiti in Tanzania e gli oscuri traffici del suo tesoriere, la bandiera della Padania sembrava sul punto di essere ammainata, con appena un 4 per cento dei consensi.

Non sappiamo se, come qualcuno sostiene, in quei giorni di un anno fa Salvini si fosse montato la testa, convinto da un successo travolgente di non avere ostacoli che potessero intralciare la sua marcia su Roma. Né sappiamo quanto abbiano influito sulla decisione di rompere l’alleanza gialloverde le pressioni dei colonnelli leghisti e di alcuni ministri che spingevano da mesi per le elezioni. Sta di fatto che mentre i successi hanno tanti padri, le sconfitte ne hanno uno solo. E così, da osannato che era, da leader infallibile con la parlantina sciolta, l’ormai ex ministro dell’Interno si ritrovò all’improvviso dipinto come un capitano rintronato, troppo sbronzo di mojito per capire dove stesse andando. Può darsi che, ebbro di successi, Salvini abbia davvero perso il controllo di una macchina lanciata a 200 all’ora. Però è curioso che tutti coloro che per settimane gli chiesero di dire addio ai Cinque stelle siano divenuti poi i suoi più implacabili critici. Come a dire: se per rompere con Luigi Di Maio e compagni, invece dell’8 agosto Salvini avesse scelto l’8 giugno, le cose sarebbero andate diversamente. Ma non è così. Nel caso in cui la mozione di sfiducia a Giuseppe Conte fosse stata presentata all’inizio di luglio, la mossa del cavallo Matteo Renzi sarebbe stata identica, perché dopo aver giurato e spergiurato di non volere nessuna alleanza con i grillini, l’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Pd si era reso conto che l’intesa con i Cinque stelle era il solo modo di evitare le elezioni e dunque la sua definitiva marginalizzazione politica. No, non è la mancanza di tempismo che può essere addebitata al leader leghista. Semmai la decisione di rompere con il Movimento: era proprio necessaria? Davvero non c’era modo di sfruttare un’intesa che, seppur sofferta, aveva consentito di varare i decreti Sicurezza, di bloccare le navi delle Ong, di varare Quota 100 e perfino di far partire la Tav e il Tap? Certo, l’accoppiata Lega-Cinque stelle non era l’intesa ideale, quella che un elettore di centrodestra potesse auspicare, ma in fondo, visto ciò che è venuto dopo, soprattutto la paralisi delle decisioni prese «salvo intese» per evitare la crisi e dunque le elezioni, forse era il peggiore dei mali.

A distanza di un anno, Salvini giura che rifarebbe tutto ciò che ha fatto. Ovvio, riconoscere gli errori non è un esercizio praticato con frequenza dalla classe politica e il leader della Lega non fa eccezione. Del resto, anche Giuseppe Conte, a cui si potrebbero addebitare i molti tentennamenti nella prima fase dell’emergenza Covid e poi un eccesso di decisionismo quando, al contrario, sarebbe stata richiesta flessibilità, sostiene di non avere rimpianti. E lo stesso si potrebbe dire di Renzi o di Nicola Zingaretti.

Ma al di là della capacità della politica di riconoscere gli errori, a distanza di un anno dalla fine del Conte uno, siamo in una situazione di stallo, con un governo che non decide e un’opposizione che appare divisa sul da farsi. Salvini si è intestato la campagna elettorale delle Regionali, impegnandosi in una maratona di comizi e incontri. Dalla Liguria alla Toscana, dalla Puglia alle Marche: l’agosto dell’ex ministro è, un anno dopo, una nuova sfida. Il leader leghista è convinto che un successo a settembre, quando si voterà per i governatori, potrebbe risarcirlo della mancata spallata del 2019. È vero. Se la sinistra perdesse due o forse tre delle regioni al voto, fallendo la conquista di quelle già amministrate dal centrodestra, per il governo sarebbe difficile resistere. Dentro il Pd la seggiola di Zingaretti, già altamente instabile, vacillerebbe. Ma è anche vero che se l’assalto alle regioni rosse fallisse o riuscisse solo a metà, mentre la riconferma di Luca Zaia nel Veneto andasse oltre le più rosee previsioni, consentendogli di superare il 70 per cento, anche la poltrona di Salvini sarebbe meno stabile.

Al di là della sicurezza che manifesta nell’intervista che pubblichiamo in questo numero di Panorama, il leader della Lega, l’uomo che l’ha portata dal 4 al 24 (ma, come dicevamo, un anno fa anche al 34 per cento) sa che la riconoscenza non è una categoria che in politica sia presa in considerazione. E dunque sa anche che con il voto di settembre si gioca, se non tutto, molto. Di sicuro in ballo c’è la leadership del centrodestra. Ma forse anche del Paese.

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