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L’anomalia presidenziale italiana

L’anomalia  presidenziale  italiana

L’editoriale del direttore

L’Italia da almeno trent’anni reclama un cambiamento, ma da tre decenni invece di favorire la trasformazione del sistema politico, i presidenti della Repubblica l’hanno ostacolata, impedendo qualsiasi riforma che togliesse loro un po’ di potere


Sono particolarmente affezionato ai nostri presidenti della Repubblica. Infatti, nel corso degli ultimi 30 anni ho dedicato loro un’infinità di articoli, ricambiato con un paio di denunce per vilipendio, reato punito con una pena da uno a cinque anni (tranquilli, in un caso sono stato assolto e nel secondo archiviato), e con un licenziamento. Ovviamente non ho mai avuto nulla di personale contro Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella. Semplicemente ritengo che invece di difendere la Costituzione abbiano difeso le prerogative di un vecchio regime che fa acqua da tutte le parti. L’Italia da almeno trent’anni reclama un cambiamento, ma da tre decenni invece di favorire la trasformazione del sistema politico, i presidenti della Repubblica l’hanno ostacolata, impedendo qualsiasi riforma che togliesse loro un po’ di potere. Lo si vede anche adesso, con la proposta dell’elezione diretta del premier. È bastato che il governo presentasse una legge all’acqua di rose e, non direttamente del Quirinale (no, sul Colle non si sporcano mai le mani), ma da politici e commentatori si è levata una voce unanime per contrastare le modifiche costituzionali.

Per quanto mi riguarda sarei andato dritto verso la riforma presidenziale, magari prendendo a prestito la legge francese. Tuttavia, non è dell’elezione diretta del presidente del Consiglio e delle norme antiribaltoni che voglio parlare. Bensì di quanto è accaduto trent’anni fa, proprio di questi tempi. Tutti ricordano che nel 1993 crollò la Prima Repubblica, con avvisi di garanzia a bizzeffe e arresti all’ordine del giorno. Però oltre a questo, cioè alla fine del Caf, il patto Craxi-Andreotti-Forlani, e al salvacondotto per il Pds, il Partito democratico della sinistra, ci fu anche altro. Proprio all’inizio di novembre scoppiò lo scandalo del Sisde, ossia dei fondi neri che il nostro servizio segreto distribuiva a destra e a manca, tenendosi un bel po’ di milioni, anzi miliardi perché si trattava di lire, per consentire ai suoi capi di fare la bella vita.

Tutto cominciò proprio per una rendicontazione sospetta, che portò la magistratura a indagare. Alcuni dirigenti vennero beccati con il sorcio in bocca, anzi con i soldi in tasca, e trasferiti direttamente nelle patrie galere. Qui ebbero tempo per pensare a ciò che li attendeva per aver rubato soldi pubblici, ma un bel giorno uno di questi, mi pare si chiamasse Maurizio Broccoletti, si cantò la storia del presidente della Repubblica che negli anni da ministro dell’Interno intascava una bustarella da 100 milioni al mese senza dire a nessuno cosa facesse di quel denaro. L’agente pensava così di aver dato a quei cagnacci della Procura l’osso che volevano e sperava a questo punto di essere lasciato in pace. Avendo visto un’infinità di gente che appena finita dietro le sbarre vuotava il sacco e veniva liberata con la promessa di una pena minima, lo spione contava su una ricompensa. Invece aveva fatto male i suoi conti. Infatti, anziché esultare di gioia per la preda che era appena stata consegnata nella loro tana, i pm si spaventarono. Si potevano toccare tutti, ministri e leader politici, industriali di primo piano e manager di primissimo, chiudendoli in cella per giorni e addirittura mesi, ma con il capo dello Stato come si faceva?

In passato le accuse più varie avevano costretto altri presidenti della Repubblica a fare precipitosamente le valigie, ma Scalfaro non era uomo che si arrendesse facilmente, neanche di fronte al sospetto che avesse preso per anni bustarelle. E infatti, colui che per la sua provenienza era chiamato «il sacrestano», invece di mollare rilanciò, presentandosi in tv a reti unificate per pronunciare il famoso «Io non ci sto». Gli italiani, già frastornati dagli arresti quotidiani, non ci capirono niente. Soprattutto non compresero perché mentre tutti gli altri fossero chiamati a chiarire che fine avessero fatto i soldi dei contribuenti, lui potesse chiamarsi fuori e chiudere la questione con un semplice non ci sto. In Procura c’era chi voleva andare avanti e indagare come sarebbe stato necessario visto che tutti sono uguali davanti alla legge e che per i magistrati esiste l’obbligatorietà dell’azione penale. Però c’erano anche delle toghe che invocavano prudenza, sostenendo che non si potesse mettere sul banco degli imputati il capo dello Stato sulla base delle accuse di altri indagati. In pratica, quello che valeva per la gente comune non poteva valere per «il campanaro».

Finì con la vittoria di quanti volevano archiviare ogni cosa, i quali non soltanto si rifiutarono di indagare sul conto di Scalfaro, ma addirittura minacciarono di indagare Broccoletti e spioni di «attentato agli organi costituzionali». In pratica, accusare Scalfaro significava candidarsi a trascorrere qualche decennio in galera. Inutile dire che finì con un insabbiamento. Il caso fu archiviato e il presidente della Repubblica poté terminare il proprio mandato combinando altri guai, tra i quali – lo ricordo – non sciogliere le Camere quando Silvio Berlusconi fu raggiunto da un avviso di garanzia della Procura di Milano e abbandonato dalla Lega di Umberto Bossi. Nasce da lì, da quella mancata indagine, non tanto la fine della prima Repubblica, ma l’inizio di una repubblica presidenziale senza che gli italiani abbiano mai scelto il presidente. I governi tecnici, i ribaltoni, le stangate perché «ce lo chiede l’Europa», sono frutto di quell’«Io non ci sto». Forse sarebbe bene che prima o poi a pronunciare l’«Io non ci sto» fossero gli elettori.

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