Novant’anni fa andava a fuoco il Reichstag, il Parlamento tedesco. Adolf Hitler approfittò dell’attentato per farsi proclamare Cancelliere. E da allora segnare il destino dell’Europa.
Le fiamme avvolsero le aule parlamentari del Reichstag tedesco che, a distanza di chilometri, sembrò un’immensa torcia, capace di arrampicarsi ancora più in alto, quasi a sfidare i confini del cielo. Con il «senno del poi», quel fuoco – 27 febbraio 1933, novant’anni fa – rappresenta l’anticipazione simbolica dell’incendio destinato a bruciare l’Europa, fino alla conclusione della Seconda guerra mondale.
L’episodio offrì il pretesto ad Adolf Hitler per chiedere i pieni poteri che gli furono concessi. Lui e il suo partito godevano di una popolarità a tratti entusiastica ma, alle urne, pur raggiungendo una maggioranza relativa qualificata, non disponevano di quella assoluta. Perciò non erano in grado di proporre un governo con il supporto di consensi sufficienti per ottenere il voto di fiducia. A spazzare via le ultime resistenze di chi diffidava dei nazionalsocialisti fu proprio quel clima di emergenza, provocato dall’attentato al Parlamento. Perché di attentato si trattò, apparve chiaro fin da subito. E anche le analisi storiche che ne seguirono convengono che le fiamme divamparono perché qualcuno le aveva appiccate. Addirittura più persone.
I pompieri individuarono almeno quattro inneschi d’incendio che, partendo da punti differenti, finirono per avvolgere l’intero palazzo. Addirittura, l’aula dei deputati venne sventrata da un’esplosione, dettaglio che portò gli inquirenti a considerare che i sabotatori, per essere certi del risultato, avevano imbottito il Reichstag di tritolo. Resistette la cupola che restò, quasi appesa, fra travi incurvate dal calore. E rimasero in piedi le colonne doriche che abbellivano l’entrata e la facciata del palazzo che non cedette al divampare del fuoco.
Del commando che operò nella sede del Parlamento tedesco, il primo a essere individuato fu Marinus van der Lubbe che, senza camicia e con gli abiti strappati, tentava di nascondersi accovacciandosi nel buio, sotto un muro di cinta dello stabile. Era un olandese di Leida con alle spalle la vita tribolata dell’orfano, senza titoli di studio e con infime possibilità di tirare avanti. In Germania, aveva lavorato nei cantieri edili come muratore ma maneggiando la calce viva, per un incidente sul lavoro, si trovò a perdere quasi del tutto la vista. Fin da subito aveva aderito ai movimenti socialisti, tanto da essere segnalato alla polizia per i suoi atteggiamenti da estremista.
Con l’impossibilità di lavorare, finì per radicalizzare un’ideologia già di per sé aggressiva e aderì alla fazione comunista che gli sembrava più appropriata per portare il proletariato al potere. Con queste evidenze, a Hitler e Herman Göring risultò facile incolpare i partiti della sinistra. I loro leader – l’accusa – erano personaggi votati al disordine, incapaci di operare per il benessere della collettività e unicamente proiettati a creare le condizioni per una rivoluzione i cui contenuti non potevano che essere malefici. S’incrementarono i consensi per i nazisti – partito dell’ordine – quanto precipitò la considerazione per i comunisti. Le indagini successive all’attentato portarono in carcere una mezza dozzina di dirigenti comunisti, a cominciare da Georgi Dimitrov che, fra gli agitatori rossi, rappresentava il punto di riferimento più fidato. E poi i suoi diretti collaboratori: Blagoj Popov e Vasil Tanev. Il processo si svolse a Lipsia in un clima reso effervescente dal furore delle camicie brune naziste che pretendevano una sentenza esemplare e univoca. La decisione dei giudici li accontentò solo parzialmente. Van der Lubbe fu ritenuto colpevole, condannato alla pena capitale e decapitato la mattina del 10 gennaio 1934. Tre giorni dopo avrebbe compiuto 25 anni.
Era una forzatura senza precedenti perché, a quel tempo, il codice penale non prevedeva la pena di morte. Fu necessario introdurla in gran fretta e, – questione che fa rabbrividire i giuristi – applicarla con valore retroattivo. Per l’intellighenzia comunista, invece, il responso della Corte fu favorevole. Decisivo l’interrogatorio di Dimitrov che, con argomenti appropriati, esibì un’oratoria convincente, utile per fare assolvere se stesso e tutti gli altri dirigenti del partito. Nel libro La banalità del male, scritto da Hannah Arendt quando la Germania nazista era già stata sconfitta, un intero capitolo è dedicato al processo di Lipsia e, in quel contesto, alcune pagine riportano il «confronto» fra Dimitrov che si sforzava di scagionarsi e Göring che insisteva nell’accusarlo. Il risultato andò persino oltre l’assoluzione perché quella autodifesa venne stenografata, tradotta nelle lingue di mezzo mondo e propagandata fra i partiti comunisti d’opposizione.Trovò ammiratori anche fra i tedeschi che ormai avevano scelto d’ingrossare le fila a sostegno di Hitler. «In Germania» sussurravano «è rimasto un solo uomo ed è un bulgaro». In effetti, proprio con il fuoco del Reichstag divampò il primo incendio che ridusse in cenere l’Europa.
L’emozione suscitata dal tentativo di distruggere il Parlamento consentì a Hitler di rivendicare i pieni poteri. Il presidente della Repubblica era indicato come Paul von Hindenburg. Durante la Prima guerra mondiale aveva comandato le truppe sul fronte orientale conseguendo discreti successi contro l’armata russa (quando si trattava di attaccare) e conservando la compattezza dei reparti (quando fu necessario difendersi). Proprio quel suo comportamento risoluto nella buona e nella cattiva sorte della guerra lo segnalò all’attenzione degli elettori che gli affidarono ruoli politici importanti fin dal tempo dell’esordio della repubblica di Weimar. Il suo era il secondo mandato come capo di Stato. Delle sue convinzioni conservatrici non faceva mistero. Veniva da quell’aristocrazia prussiana che considerava la società un blocco monolitico che non si poteva scalfire. Anche il solo tentativo di dare corpo a qualche cambiamento andava inchiodato sul nascere. Considerava l’immobilismo un valore da preservare. Però non era nazista e gli ci vollero un paio di giorni (e notti insonni) prima di piegarsi alle pressioni di Hitler. Il clima politico che si stava sviluppando non lo aiutò a tenere duro e firmò il decreto. «Il governo» tentò di rassicurare Hitler al momento della richiesta del voto favorevole «farà uso di questa autorizzazione nella misura in cui ciò sarà indispensabile per l’attuazione di misure vitali. Non è minacciata l’esistenza del Reichstag e i diritti del presidente del Reich restano inviolati». Linguaggio duro con i toni militari.
«L’obiettivo è progettare una costituzione che leghi la volontà del popolo con quella dell’autorità che lo guida. Decidete fra la pace e la guerra». Che il provvedimento potesse passare era comunque dubbio. Fu necessario espellere dal Parlamento i deputati comunisti e privarli del voto mentre quelli socialisti furono intimiditi e tenuti lontani dall’aula dell’assemblea in modo che non potessero esprimersi. Nonostante l’«eliminazione» di un centinaio di deputati, ai nazisti fu necessario un accordo con il partito del Centro cattolico. Secondo alcuni storici, il loro consenso fu barattato con la promessa di Hitler di stipulare un concordato con la Santa sede. Anche se, dai documenti dell’archivio vaticano, non risulta che la segreteria del Papa fosse stata informata prima di questo tipo di trattativa. E tracce di dialogo con il Vaticano non sono rintracciabili nemmeno dopo. Utilizzando i pieni poteri, venne redatta la nuova Costituzione – quella nazista – che sottoposta a referendum raccolse il 92 per cento di «sì». Adolf Hitler era diventato Führer per davvero.