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Referendum: se vincesse il no…

Referendum: se vincesse il no…

L’editoriale del direttore

A far pendere la bilancia contro il taglio dei parlamentari non c’è solo l’istinto di conservazione della classe politica. C’è anche la consapevolezza che la riduzione non renderà Parlamento più efficiente e nemmeno più indipendente.


Qualche sera fa mi è capitato di vedere Dino Giarrusso in tv. L’europarlamentare dei Cinque stelle parlava della riforma che riduce i parlamentari di circa un terzo, taglio che gli italiani dovranno approvare o respingere il 20 e 21 settembre, quando insieme con le regionali si terrà il referendum confermativo alle modifiche della Costituzione. Nel solito pastone politico che ogni sera viene dispensato dal Tg1, l’ex Iena spiegava a nome dei grillini la ragioni del Sì alla sforbiciata di politici.

L’intervento è durato pochi minuti, ma l’unica giustificazione che l’eurodeputato (il quale, sia detto per inciso, non è minimamente sfiorato dal taglio, in quanto la riforma non tocca il numero di onorevoli acquartierati a Bruxelles) è riuscito a esprimere è che, grazie alla riduzione, gli italiani risparmieranno 100 milioni di euro l’anno. Non so se la cifra corrisponda al vero: l’osservatorio guidato da Carlo Cottarelli calcola che alla fine il beneficio sarà poco più della metà. Ma non è questo il punto: 100 o 57 cambia poco. Se paragonata al Pil italiano, la somma è una goccia nell’oceano e, a confronto con la spesa pubblica, una goccia nel mare. Stiamo infatti parlando di circa un euro all’anno per ogni italiano, l’equivalente di un caffè.

Basta questo per capire che la discussione si riduce alle briciole, perché il grande spreco nazionale non si risolve cancellando 300 stipendi, per quanto congrui, come quelli dei parlamentari. Immagino già le obiezioni: 100 o 57 milioni sono pur sempre soldi dei contribuenti e dunque risparmiarli è una cosa positiva. Inoltre da qualche parte bisogna cominciare, e partire con una sforbiciata alla Casta è sempre un bell’inizio. La classe politica ha accumulato talmente tanti demeriti che si fa fatica a trovare qualcuno disposto a difenderla. A dire che si è contro la riduzione degli onorevoli si rischia l’impopolarità e infatti, tranne un certo numero di nostalgici ormai fuori dal Parlamento e una ridottissima pattuglia di temerari che a Montecitorio e a Palazzo Madama ancora è di stanza, perfino tra deputati e senatori si fatica a trovare chi sostenga apertamente le ragioni del No.

Però, nonostante in pubblico tutti i politici convergano a favore della riduzione, in privato la musica cambia, anche fra grillini e onorevoli del Pd, che pure la riforma l’hanno votata. A far pendere la bilancia contro il taglio dei parlamentari non c’è solo l’istinto di conservazione della classe politica, che pure pesa. C’è anche la consapevolezza che la riduzione non servirà a rendere il Parlamento più efficiente e nemmeno più indipendente. Anzi.

Paradossalmente, le Camere saranno ancora di più agli ordini delle segreterie. Riducendo il numero dei «rappresentanti del popolo» si riducono infatti anche i collegamenti con gli elettori e i collegi, al punto che i nuovi deputati e senatori saranno scelti non dagli italiani, ma da chi li ha messi in lista, con un controllo più ferreo delle dinamiche politiche. In pratica, avremo un Parlamento al guinzaglio dei vertici dei partiti e, inevitabilmente, del partito o della coalizione di maggioranza. Le nomine avranno un percorso obbligato e saranno decise da pochi.

Perfino l’elezione del capo dello Stato rischia di essere condizionata dal nuovo assetto. Riducendo il numero di onorevoli, non si riducono i senatori a vita e nemmeno i grandi elettori nominati dalle Regioni, con il risultato che i consiglieri designati dai governatori avranno un peso superiore rispetto a quello avuto fino a ieri, diventando determinanti nella scelta del presidente della Repubblica.

Sì, se non la si guarda solo con un occhio al portafogli, la riforma fa acqua da tutti le parti. Lo sa il Pd e lo sanno i grillini, ma siccome la riduzione degli onorevoli è un vessillo del Movimento 5 stelle, nessuno ha voglia di metterla in discussione, temendo che una marcia indietro faccia saltare tutto, costringendo alle dimissioni un governo che è già precario di suo.

Ma l’idea di far cadere il governo è anche la grande speranza dell’opposizione. Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia non se la sentono di fare campagna per il No, perché temono l’accusa di difendere la Casta. Sotto sotto però, sognano la sconfitta di Luigi Di Maio e compagni. Sarebbe una botta, che insieme alla probabile perdita di alcune regioni amministrate dalla sinistra, non consentirebbe al Conte bis di sopravvivere. Perché il referendum è sì sul numero di parlamentari, ma un po’ anche sul governo. Anzi: molto più di un po’.

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