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Cinquecentenario Raffaello: il ritratto come specchio dell’anima

Cinquecentenario Raffaello: il ritratto come specchio dell’anima

A 500 anni dalla scomparsa dell’artista di Urbino, una grandiosa esposizione lo celebra a Roma. E in attesa della riapertura dopo l’emergenza Covid-19, un viaggio tra i suoi capolavori ne racconta la capacità introspettiva e i rapporti col proprio tempo.


Ecco, io ho 30 anni più di Raffaello. Raffaello Sanzio è vissuto 37 anni: era nato il 6 aprile a Urbino ed è morto a Roma il 6 aprile (1520). In queste due date c’è un mondo, Raffaello ha creato il mondo. Dio si era limitato ad abbozzarlo, Raffaello lo ha perfezionato. Oggi, a Roma, una mostra chiusa ci tiene nascoste le opere di questo straordinario pittore. Speriamo che a Urbino – non è stato possibile il 6 aprile, ma tra qualche settimana – si possa riaprire tutto e si possa vedere ciò che Raffaello ha lasciato nella memoria dei suoi concittadini che oggi lo onorano. Urbino è il luogo che egli non può dimenticare, è il luogo della sua infanzia, è il luogo di suo padre, è il luogo di Piero Della Francesca, è il luogo dei suoi amori, è il luogo della bellezza e dell’architettura e delle bellezza e delle donne che lo porterà alla dannazione. Bello e dannato.

Credo che ricordarlo oggi, in questa singolarissima coincidenza, del giorno della nascita e del giorno della morte, voglia dire vedere in Raffaello il punto di arrivo di una vita compiuta: in pochi anni ha fatto quello che un altro uomo, neanche in 100 anni, mai avrebbe fatto. Non è solo Rinascimento. È perfezione, è armonia, è l’arte che vince la natura.

Dopo il grande impegno, accompagnato come sempre da inutili polemiche, per fare arrivare tanti capolavori alla mostra di Roma, è una pena pensare che anch’essi sono sottoposti a una quarantena che l’ha chiusa l’8 marzo, a tre giorni dalla apertura. Durerà per la metà esatta dei giorni previsti: io credo e spero, fino al 18 aprile. Ampi sono gli spazi delle Scuderie del Quirinale, ed è possibile accogliere i visitatori mantenendo le distanze di sicurezza sanitaria. Auspicabile che, nell’entusiasmo della ripresa, si prevedano visite notturne con un’intensità di vita che ripagherà Mario De Simoni e Matteo Laffranconi degli sforzi per chiamare a Roma molte delle opere che a Roma furono dipinte: la patria di Raffaello, così come viene descritta nella lettera a Leone X, concepita con Baldassarre Castiglione.

Nessuno ebbe coscienza così piena non solo di ciò che Roma era stata, ma di ciò che Roma era al presente, più di Raffaello, e con lo spirito di chi sa che conservare le memorie del passato non è, soprattutto nella città viva, una impresa archeologica, un impegno commemorativo, ma una coscienza di una contemporaneità, di una convivenza di due grandi civiltà: quella romana e il Rinascimento.

«Non debe, adonque, Padre Santissimo, esser tra li ultimi pensieri di Vostra Santitate, lo haver cura che quello poco che resta di questa anticha madre de la gloria e grandezza italiana (…) non sii estirpato e guasto dalli maligni et ignoranti; che, pur troppo, si sono insino a qui fatte iniurie a quelle anime che col suo sangue parturiro tanta gloria al mondo».

Ed è intorno a questa lettera, piena di emozione, che la mostra ha la maggior forza, in virtù della presenza dei protagonisti che, senza depauperare i musei da cui provengono, sono tornati a casa per parlarci della loro anima e dei loro ideali, che si realizzano tra Urbino e Roma. Vediamo i due Papi: Giulio II e Leone X. Il primo poco prima di morire, lontano dalla concreta leggenda che lo vuole «guerriero» e «terribile», per conquistare Bologna, Perugia, Forlì scendendo in Romagna lungo la Valmarecchia fino ad arrivare a Savignano.

Questo politico colto che ascoltò Donato Bramante per far venire Raffaello a Roma, e che aveva sfidato il doge costituendo la Lega di Cambrai, si trovò poi a contrastare il prevalere dei francesi costituendo la Lega Santa con Enrico VIII d’Inghilterra, Massimiliano I e proprio la Repubblica veneziana. È sconfitto Giulio II quando Raffaello lo ritrae, ma ha vinto quando ha chiamato Raffaello per gli affreschi nelle Stanze vaticane, Michelangelo nella Cappella Sistina e nel progetto per il suo monumento funebre. Raffaello ce ne mostra l’anima segreta: «Non certamente il Papa energico e battagliero. L’orso che con la spada in pugno aveva scalato d’inverno le mura di una fortezza nemica, non il Papa criticato per gli eccessi carnali del proprio comportamento, per i tremendi appetiti, per un’iracondia che atterriva gli ambasciatori e i postulanti, ma un pontefice anziano, fragile e umano, rivolto finalmente a valori spirituali, con lo sguardo perso nel vuoto, come acceso dalla luce interiore, colto in un momento di introspettiva meditazione», scrive Vincenzo Farinella.

È un uomo che ci parla e ci mostra la sua anima. Dopo di lui toccherà a Leone X, tra guerre e congiure e vendite di indulgenze che indignavano Martin Lutero. Di lui gli avversari raccontano che quando divenne papa, a soli 37 anni, l’11 marzo 1513, abbia detto a suo cugino Giulio: «Poiché Dio ci ha dato il Papato, godiamocelo». Avrebbe fatto feste con cene da 65 portate. Si racconta viaggiasse attraverso Roma alla testa di una stravagante parata, in cui sarebbero apparsi pantere, giullari e un elefante bianco di nome Annone. Come al tempo dei romani antichi, l’elefante albino entusiasmava il popolo.

Tanto era importante l’elefante che era un segno di distinzione doverlo accudire, come toccò a Raffaello e a Baldassarre Castiglione, in ragione del loro valore artistico e letterario. Ed ecco, nella mostra delle Scuderie, un altro protagonista, proprio Baldassarre Castiglione, nel ritratto prestato dal Louvre. Il ritratto più bello di Raffaello, nel quale è raggiunto il più alto equilibrio fra anima e rango, in una esplicita sintonia con il più sensibile ritrattista di quel tempo: Tiziano Vecellio. Baldassarre era particolarmente caro a Raffaello anche perché era stato tra il 1504 e il 1513, nell’imminenza del ritratto dipinto a Roma, alla corte di Urbino presso Guidobaldo da Montefeltro e Francesco Maria della Rovere. Arrivato come ambasciatore a Roma, il Castiglione poteva descrivere a Raffaello quello che era capitato a Urbino dopo la sua partenza: «La vita del principe è legge e maestra dei cittadini e forza è che dei costumi di quello dipendano quelli di tutti gli altri» .

Raffaello lo ha visto alla corte dei due papi, e Baldassarre Castiglione lo descrive ne Il Cortegiano. Nel momento in cui Raffaello lo dipinge, ne rappresenta l’umanità e l’autorevolezza, senza alcuna fragilità, senza declinazioni intimistiche e neppure vanagloria per la posizione raggiunta. Il ritratto è immagine dell’equilibrio morale e intellettuale: «Le virtù non tutte ugualmente né sempre si manifestano, ma la magnificenza, la liberalità e quella che si chiama cortesia è dipinta coi più fini colori che abbia l’artificio della corte e del cortegiano; parimenti la virtù del conversare, l’affabilità e la piacevolezza».

Le parole de Il Cortegiano sono uno specchio del ritratto di Raffaello. Altri si affacciano, nell’incrocio dei grandi uomini, ed ecco allora il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, anch’egli intimo di Raffaello, nominato cardinale da Leone X con il quale, caduti i Medici a Firenze, guarda caso, era stato alla corte di Urbino. Proprio a Urbino, passata sotto la signoria dei della Rovere, il Bibbiena ebbe l’occasione di stringere amicizia fraterna con Baldassarre Castiglione che contribuì alla buona riuscita scenica della sua unica e notevole commedia La Calandria, recitata a Urbino nel 1513.

Una rete di amicizie, un intreccio di memorie, la patria sempre presente anche a Roma. Manca solo un ritratto di Bramante per completare questa rassegna di «amici miei». Il cardinale Bernardo è quello che vuole anche dare moglie, tra mille riluttanze, a Raffaello, che è innamorato di Margherita Luti, ritratta, e sempre in mostra, in una dimensione intima e privata nella Velata e nella Fornarina, una bellezza calda e sensuale i cui tratti ricordano quelli di Monica Bellucci, nata nella vicina Città di Castello, la prima città in cui Raffaello fu autonomo pittore, con lo stendardo della Santissima Trinità e con la pala di Beato Nicola da Tolentino. Vedi come echi lontani rendono sempre presente Raffaello. E in questa galleria, l’opera più stupefacente e viva è proprio l’autoritratto di Raffaello in compagnia di un amico, l’altro dipinto prestato dal Louvre; e che, come tutti noi, è in solitaria clausura alle Scuderie.

Per chi ricorda, come un logo, l’Autoritratto degli Uffizi, pallido, spirituale, romantico che lo ritrae poco più di 10 anni prima, il Raffaello che ci guarda dall’autoritratto del Louvre sembra un altro. Quantum mutatus ab illo! Quell’uomo fragile e sottile si è lasciato crescer capelli e barba, è ingrassato, come per un’incontenibile sensualità, da intendersi letteralmente come cedimento ai sensi, o loro deragliamento. Ce lo dice, con reticenza, Giorgio Vasari richiamando, nonostante le perverse mode del nostro tempo che nel doppio ritratto adombrano l’ennesimo auspicato outing omosessuale, in un’involontaria ma esplicita confessione, i suoi turbamenti amorosi: «Fu Raffaello persona molto amorosa et affezionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro», e ancora: «Il quale Raffaello, attendendo intanto ai suoi amori così di nascosto, continuò fuor di modo i piaceri amorosi, onde avvenne che una volta fra l’altre disordinò più del solito».

Disordini amorosi, ben diversi da quelli che immagina chi scrive: «Molti ritengono che l’uomo con lui nel quadro altri non sia che il suo impetuoso amante, pittore e architetto manierista, Giulio Romano, che Raffaello nominò suo erede universale nel testamento. Sguardi e gesti (la mano che mima l’uso di una spada sembra indicare: ti proteggerò io, ovunque tu voglia andare ti proteggerò io). Sono da giuramento di nozze. Una “disinvoltura” troppo osé per l’epoca, che io non noto in quasi nessun altro dei ritratti idealizzati e ufficiali che Raffaello dipinse ai suoi contemporanei». Povero, su questi specchi, Giovan Battista Brambilla, che pur ravvisando una «spontaneità erotica» la indirizza dalla parte sbagliata.

Il Raffaello che ci guarda confessa, dopo tanto studio, il suo costante e inconfessato amore per le donne cui ha dedicato, fino alla Fornarina, i suoi ritratti più sensibili. E raccogliendone l’anima segreta, dai primi femminilissimi angeli alla Gravida e alla Muta, la cedevole e la frigida, tra le tante donne che ebbe l’occasione di incontrare, in una lunga vita amorosa.

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