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Quell’odio che ci fa ricordare le Brigate Rosse

Quell’odio che ci fa ricordare le Brigate Rosse

La polemica contro Giorgia Meloni, per aver evocato gli Anni di piombo e accusato la sinistra di fomentare l’odio politico, mi ha indotto a prendere in mano vecchi libri dedicati alla nascita del partito armato. In particolare, sono tornato a sfogliarne uno dal titolo Che cosa sono le Br. A scriverlo, più di vent’anni or sono, fu un giornalista di Panorama, Giovanni Fasanella, insieme con uno dei fondatori delle Brigate rosse. Sotto forma di intervista all’ex terrorista Alberto Franceschini, il volume scava alla ricerca delle radici di un movimento che insanguinò e terrorizzò l’Italia. Con un nonno partigiano finito a fare, dopo la guerra, il custode nella sede della Camera del lavoro di Reggio Emilia, Franceschini è cresciuto a pane e Pci, respirando in famiglia racconti sulla Resistenza e nostalgie rivoluzionarie. A 14 anni aveva già in tasca la tessera della Federazione giovanile comunista e a 16 sognava una via poco pacifica alla rivoluzione. Non aveva vent’anni quando, attorno alla sezione della Fgci, cominciò a formarsi un gruppo di giovani molto numeroso e agguerrito. «Il nucleo delle future Brigate rosse?» chiede Fasanella. «Quello più importante, almeno. Il più importante dal punto di vista numerico e per capacità organizzativa».

Era il 1967 e nonostante non ci fosse stata ancora la strage di piazza Fontana, che secondo la vulgata della sinistra spinse tra le braccia del terrorismo un’intera generazione come reazione alla violenza fascista, alcuni dei giovani accolti nella sezione del partito avevano già avuto il loro battesimo di fuoco, sparando, senza colpirlo, a un dirigente nazionale del Pli. Ai tempi Franceschini era membro del Comitato federale della Fgci e anche di quello del Pci. E i suoi compagni si chiamavano Prospero Gallinari, Roberto Ognibene, Attilio Casaletti, Fabrizio Pelli, Tonino Paroli, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli. Provenivano tutti da famiglie comuniste e finirono tutti nelle Br. Un gruppo che aveva come obiettivo la lotta armata. Ho sentito dire in questi giorni che i brigatisti nacquero contro il Pci: stupidaggini. La testimonianza di Franceschini è chiara da questo punto di vista: comparvero dentro il Partito comunista, nutriti dai racconti degli ex partigiani, i quali dopo aver nascosto le armi usate durante la Resistenza sognavano di passarle ai più giovani, come poi alcuni di loro fecero. «Eravamo nel 1968-69. L’idea che avevamo, chiara e precisa, era che dovevamo costruire una struttura armata». «Pur rimanendo dentro il Pci?» chiede Fasanella. «L’idea era nata nel 1967, allora nessuno di noi pensava di andarsene dal Partito». Franceschini e compagni non erano ancora terroristi ma anzi partecipavano alle manifestazioni per la pace, come quella contro la visita in Italia del presidente americano Richard Nixon. Però, mentre agitavano le bandiere rosse della Fgci, preparavano quelle con la stella a 5 punte. La prima azione del gruppo risale a pochi mesi dopo: Franceschini, Gallinari e Paroli entrarono di notte in una fabbrica di motori di Reggio Emilia, la Lombardini. Erano armati perché lo stabilimento era pattugliato dalle guardie notturne, ma non si preoccuparono del rischio di una sparatoria: tagliarono la rete e, una volta dentro, sul muro del reparto scrissero «Lombardini ti impiccheremo».

La violenza come crescendo

Vi chiederete perché racconti tutto ciò. Lo spiego subito. Primo, la violenza politica non arrivò all’improvviso nelle nostre vite: fu un crescendo. All’inizio verbale, poi anche fisica, con gli scontri in piazza. Quindi giunse il resto. Secondo, non è vero che la sinistra ha sempre combattuto le Br: per anni, invece di riconoscere che erano nate al proprio interno, ha continuato a parlare di sedicenti Brigate rosse, accreditando l’idea di gruppuscoli di provocatori manovrati dai servizi segreti, ed estranei al movimento comunista. No, erano compagni, nati e cresciuti nel Pci. E, come abbiamo visto, anche impegnati nelle lotte contro la Nato e per la pace in Vietnam. Sotto il fuoco delle Br caddero alcuni militanti del Movimento sociale, esponenti della Dc, molti uomini delle forze dell’ordine, magistrati e giornalisti. Nel 1979, cioè oltre dieci anni dopo la nascita del gruppo terrorista, fu ucciso Guido Rossa, operaio dell’Italsider “colpevole” di aver denunciato il “postino” che all’interno dell’acciaieria distribuiva volantini con la stella a cinque punte. Rossa, sindacalista comunista, dopo un’accesa discussione fra i rappresentanti del consiglio di fabbrica, fu lasciato solo dai suoi compagni, i quali rifiutarono di mettere la firma sotto l’esposto ai carabinieri. Altro che estranee al Pci: le Br sono cresciute e hanno potuto operare godendo del silenzio di una vasta area di militanti. Nel libro di Massimiliano Griner, La zona grigia, si scandaglia un ambiente fatto di intellettuali, professori, giornalisti, avvocati, magistrati e operai, che non parteciparono ad azioni terroristiche, ma simpatizzarono per esse. Disse Franceschini: «Nelle Br passarono centinaia di persone, brigatisti di un giorno, un mese, un anno, poi tornati tranquilli al loro lavoro».

L’odio politico che ritorna

Dove voglio arrivare? Ad osservare che, pur tenendo conto delle inevitabili differenze, non si può ignorare che la situazione nazionale e internazionale sia incandescente e pericolosa. Ricordando che la lotta politica può sfuggire di mano e può trasformarsi in lotta armata. Se allora c’erano i pacifisti che contrastavano l’imperialismo americano, oggi c’è chi va contro Trump in difesa della democrazia e della Palestina. All’epoca noi con il Vietnam c’entravamo poco, ma questo non impedì a qualcuno di partire da lì per finire a sparare. Oggi anche con quello che succede a Gaza abbiamo poco a che fare, ma certi slogan, certa violenza verbale, non fanno distinzioni. L’odio è odio: sai dove comincia (contro Netanyahu, contro Trump, contro la Meloni), ma non sai dove finisce.

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