Si oppongono, com’era prevedibile, al Ponte sullo Stretto di Messina. E non solo a quello: lottano strenuamente contro Tav, energia idroelettrica, rigassificatori, inceneritori, dighe… Sono i turboambientalisti (e animalisti) di sinistra, pronti a bloccare qualsiasi cantiere in nome di imprecisate «soluzioni alternative». Purché tutto resti com’è.
Bastarono due lontre a scatenare i turboambientalisti contro la costruzione della diga di Vetto: una di quelle che, lo scorso maggio, avrebbe contenuto l’apocalittica alluvione in Emilia-Romagna. Tra Scilla e Cariddi, invece, il problema sono aquile e cicogne. Ecco perché non bisogna assolutissimamente edificare il Ponte sullo Stretto. La tesi, pure stavolta, è supportata da una vasta letteratura orale, che si tramanda da militante a militante. Gli uccelli sarebbero ineluttabilmente destinati a perire durante il transito, in un tragico frontale contro piloni e torri dell’ipotetica infrastruttura. Urge, dunque, riscrivere i libri di scienza. Le aquile non hanno quell’inarrivabile vista, come universalmente acclarato. Il dossier di Kyoto Club, Lipu e Wwf lancia l’assordante allarme: «La creazione di una barriera trasversale alla migrazione e la distruzione di aree di sosta e alimentazione contrasterebbe nettamente con la responsabilità di conservazione degli uccelli». Per le ong, oltre a essere «dannoso dal punto di vista ambientale», il Ponte rimane poi «inutile e dispendioso» nonché «rischioso dal punto di vista tecnologico». E poi, aggiunge il mafiologo Don Luigi Ciotti, «non unirà solo due coste, ma certamente due cosche».
Cicogne e uomini d’onore. Sarebbe la fine. Eppure Matteo Salvini, sconsiderato ministro delle Infrastrutture, promette che la prossima estate aprirà il primo cantiere: «È un’opera green che abbatte l’inquinamento in mare e incentiva il trasporto su ferro». Eh, no. Meglio che tutto, gattopardescamente, resti così com’è: marasma aeroportuale per un guasto elettrico e 11 ore di treno da Trapani a Siracusa. Il ragionamento dei detrattori, stringi stringi, rimane lo stesso: visto che nell’isola va tutto a catafascio, perché costruire un collegamento ultramoderno con il continente? Elly Schlein, segretaria del Pd, personifica quindi la vulgata dell’ecopensiero unico catastrofista: «Si pensi a investire in strade e ferrovie, prima di fare conferenze spot su un progetto di Ponte costosissimo, dannoso e anacronistico che ci vorrebbero comunque anni a costruire».
Il fido Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi, già lo scorso aprile aveva spianato la strada della protesta, annunciando un sibillino esposto «sulla provenienza dei soldi». Ovvero? Il ministro leghista pensa di rapinare le vecchiette davanti alle Poste? Di setacciare i materassi a caccia di bigliettoni? «Salvini non dice dove si prenderanno gli oltre 10 miliardi di euro per costruirlo!» ruggisce Bonelli. Da far scattare le manette. Anche Nicola Fratoianni, ultimo triumviro del progressismo tricolore e leader di Sinistra italiana, è restio all’infrastruttura siculo-calabrese. Nel 2020 attaccava perfino i futuri alleati Dem, allora scalpitanti: «Sono abbastanza stupito dall’entusiasmo crescente fra i dirigenti del Pd per il Ponte sullo Stretto».
Tutti insieme appassionatamente. Ambientalisti, animalisti, collettivi, autonomi, comitati e centrosinistra. Contro centinaia di investimenti considerati strategici dal governo. Come nel caso del Ponte. Che difatti campeggia nell’ultima lista nera stilata da Legambiente: «Le opere inutili che rallentano la transizione ecologica». E il collegamento tra isola e continente resta al primo posto. Ovvio: meglio cominciare a smadonnare a Villa San Giovanni, nell’attesa di una lunga e inquinante traversata in traghetto.
Segue, inamovibile, l’alta velocità tra Torino e Lione. Avversione condivisa con galantuomini No Tav. Anche quest’estate, puntuali come gli acconti tributari di fine luglio, si sono scagliati contro la ferrovia in costruzione. Attacchi al cantiere e alla polizia: bombe carta, molotov, pietre, lacrimogeni, idranti. Accanto ai collettivi ecologisti c’era Askatasuna, il centro sociale più violento d’Italia. In nome dell’ottuso e deleterio furore, in duemila hanno rimesso a ferro e fuoco la martoriata valle piemontese.
Ma il listone di Legambiente pullula persino di strategici investimenti energetici: i rigassificatori di Porto Empedocle e Gioia Tauro, il centro di stoccaggio del carbonio a Ravenna, il gasdotto sulla dorsale adriatica e l’inceneritore di Roma. Un’interminabile lista di doglianze, critiche, preconcetti. Condivisa da un ampio e sinistrissimo fronte di indomiti e ostili. In particolare, adesso. Mentre il centrodestra smania per sbloccare progetti e cantieri che considera salvifici per il Paese.
No a tutto, dunque. Pure all’energia idroelettrica, la fonte rinnovabile più antica e sicura. Un centinaio di ong hanno scritto all’Unione europea per chiedere che venga esclusa da ogni benefico. E non va bene nemmeno riciclare gli scarti delle produzioni agricole. A Terlizzi, una trentina di chilometri da Bari, proseguono le proteste contro un impianto di biogas. Alimentato con i sovrabbondanti resti delle olive, potrebbe produrre circa tremila tonnellate di preziosissimo gas naturale liquefatto, che adesso importiamo in gran quantità per sostituire le forniture russe. Ma i comitati non si arrendono, nemmeno dopo il nullaosta della Regione Puglia. Assieme a Legambiente, hanno presentato un esposto alla procura di Trani. Denunciano «la radicale incompatibilità urbanistica dell’insediamento».
Del resto, la carta bollata è l’alleato indispensabile dei recalcitranti a prescindere: per bloccare ogni progetto, in attesa di faticosi pronunciamenti. Rimanendo in zona, dopo il solito ricorso, il Tar aveva fermato alla fine del 2022 l’Alta velocità a Bari per salvaguardare un campo di carrubi e mandorli. Mentre a Oschiri, nel Sassarese, a bloccare la ricostruzione del ponte Diana ha contribuito l’urgenza di non turbare la trota mediterranea nativa, altrimenti detta «sarda», nel fiume Coghinas.
Fortunate come le due lontre che, grazie alle battaglie ambientaliste, hanno potuto sguazzare felici laddove sarebbe dovuta nascere la diga di Vetto, nella Bassa Modenese. Se ne parla dal lontanissimo 1960. Potrebbe evitare piene, devastazioni, morti. Per interrompere il deleterio susseguirsi di esondazioni e siccità. L’imperturbabile Bonelli, nonostante tutto, presenta invece un’interrogazione contro l’indecoroso stanziamento di 3,5 milioni per uno studio di fattibilità sulla diga: «Bisogna finanziare soluzioni alternative, anziché utilizzare ingenti risorse economiche per progetti velleitari e dannosi».
Dighe, vasche, argini. C’è sempre un però. Come nel caso del Seveso, in Lombardia. Incalcolabili esondazioni nell’ultimo mezzo secolo: quando diluvia, allaga i quartieri a nord di Milano. Servono cinque casse di espansione, per non far tracimare il fiume. La più importante, tra Bresso e Milano, dovrebbe essere completata entro l’anno. Nonostante le elucubrazioni green di Eleonora Evi, co-portavoce dei Verdi assieme a Bonelli: «Un’opera che non risolve il problema della messa in sicurezza del fiume, ma contribuisce al degrado ambientale e minaccia gravemente la salute dei cittadini».
Piuttosto, ciò «di cui abbiamo bisogno è un piano straordinario di disinquinamento». Insomma: il Seveso continui pure a devastare la metropoli e le città vicine, a patto che le acque diventino «chiare, fresche et dolci», come quelle cantate dal Petrarca. A Roma, invece, l’eterna emergenza resta la monnezza. Da anni si discute di un termovalorizzatore, con i soliti noti furiosamente contrari, nonostante la città sia guidata dal piddino Roberto Gualtieri, che considera imprescindibile l’opera. Il Tar del Lazio ha appena respinto i ricorsi presentati da comitati, associazioni e comuni limitrofi. «Sono destituiti di fondamento» scrivono i giudici. E adesso chi lo dice all’implacabile Rossella Muroni, già presidente di Legambiente, amica del cuore di Elly e sua vessillifera? O a Giuseppe Conte, alla guida degli inamovibili Cinque stelle? Ma soprattutto cosa propongono pseudo-tutori e ideologici benaltristi? L’«economia circolare», proclamano concordi. Nella città più zozza e indisciplinata d’Italia, certo. E poi: raccolta differenziata casa per casa, intimano. Mentre ogni specie animale assedia la città per ravanare monnezza. Diamogliene atto, però. La coerenza degli ambientalisti arcigni e salottieri resta encomiabile. Dopo le lontre nella Cassa e le aquile sullo Stretto, anche la fauna della Capitale va salvaguardata. Nessuno osi impedire ai cinghiali capitolini di sollazzarsi nell’amato pattume.
