Legalizzare le professioniste del sesso: un dibattito che continua a dividere. Ma su cui finora è stato più comodo essere ideologici.
«Sono assolutamente favorevole alla riapertura delle case chiuse. Prima di tutto è un indotto, in Svizzera pagano le tasse. Io poi ho un viale vicino casa dove la sera è pieno di ragazze e là restano per ore al freddo. In quelle strutture sarebbero più tutelate». Sono parole di Leonardo Pieraccioni che non le ha dette in un momento di euforia o di ubriachezza ma in relazione a un film, Il sesso degli angeli, con Sabrina Ferilli, Marcello Fonte, Massimo Ceccherini e Vincenzo Salemme, nelle sale cinematografiche italiane dal 21 aprile, la scorsa settimana. Nel film si racconta di un prete, interpretato da Pieraccioni, don Simone, che riceve dallo zio Waldemaro, interpretato da Ceccherini, un’importante eredità che scoprirà essere una casa di appuntamenti, a Lugano, gestita da una ex escort, Lena (Sabrina Ferilli).
In sintesi, i motivi addotti da Pieraccioni sono presenti nel dibattito italiano da tanti anni, anzi, da poco dopo che nel 1958 furono chiuse con la Legge Merlin. Si tratta della tutela della salute delle prostitute stesse, del controllo di legalità e di non sfruttamento della più «antica professione del mondo», di una loro protezione dallo sfruttamento e dalla riduzione spesso in schiavitù e, non ultimo, dalla tassazione di questa attività derivante dalla sua legalizzazione.
Se c’è un tema che in Italia ha addirittura superato, nel modo di affrontarlo, il fariseismo più puro, è quello della prostituzione. Se ne parla – ogni tanto – con accenti apocalittici, generalmente quando viene fuori uno scandalo o quando qualcuno, come Pieraccioni ma in ambito politico, sostiene che occorre regolare il fenomeno e non lasciarlo in quella specie di limbo legislativo nel quale è ora e per il quale non è reato «vendersi», ma esiste comunque il reato di adescamento.
Sarebbe come dire: prostituitevi pure ma fatelo meno visibilmente possibile, meglio se in zone già brutte della città – leggasi le periferie – e quel che succede succede. Poi, accanto a questa ciurma di farisei, c’è qualcuno come don Oreste Benzi che ha passato la vita a recuperare, raccontava lui, «ragazze dedite alla prostituzione». Lo ha fatto senza clamore e continua a farlo, dopo la sua scomparsa, la sua comunità. Tanto di cappello. Don Benzi riteneva che ogni prostituta possa essere in qualche modo redenta e quindi occorre fare di tutto perché ciò avvenga e non è contemplato – così almeno nel suo pensiero e in quello dei suoi seguaci – legalizzare alcun ché. Nonostante il tema sia particolarmente delicato perché c’è di mezzo la vendita del proprio corpo, con tutti i risvolti psicologici e anche psicotici che ciò può generare, occorre fare delle distinzioni.
Ci sono infatti due categorie di «professioniste del sesso» per le quali occorre un’azione decisa, per cercare di eliminare il fenomeno molto più di quanto non si stia facendo. Ossia le prostitute bambine (da notare: gli stessi italiani che si dicono scandalizzati di un’eventuale riapertura delle case chiuse sono tra i maggiori frequentatori dei bordelli minorili nell’Est del nostro mondo). In questo caso l’azione deve essere ben più decisa, ben più capillare, ben più rigorosa, ben più dura.
Ci sono poi le maggiorenni ridotte in stato di schiavitù e che non hanno scelto questa professione, ma essendo schiave è stata loro imposta subendo violenze, stupri e ricatti di ogni genere. Si tratta di persone, molte provenienti dall’Africa, ma anche dai Paesi dell’Est, che vivono in condizioni di degrado e povertà, ammassate in locali fetidi messi a disposizione dai «protettori», gli aguzzini. Anche qui andrebbe intrapresa un’azione assai più ferma di quella effettuata finora e si dovrebbe ricorrere a iniziative a tappeto che servissero da deterrente per coloro che campano della riduzione in schiavitù di donne sfruttate.
C’è poi una terza categoria di donne che si prostituiscono, che sono maggiorenni, hanno scelto di farlo e non vogliono «cambiare mestiere». Certo non sono la maggioranza, ma ci sono, e di fronte a loro non esistono che due scelte: o rendere illegale questa professione, dunque mettere fuori legge chiunque la pratichi, o riconoscere a queste donne il diritto di svolgerla attraverso una legalizzazione. Quello che fa ribrezzo è mantenere una situazione confusa, nebulosa, nella quale si fa di tutta l’erba un fascio e che non si ha il coraggio di affrontare né compiendo una scelta né un’altra; e si tiene tutto così com’è, sperando che succedano meno scandali possibili. E che magari in essi non sia coinvolto qualcuno di coloro che si dice contrario alla legalizzazione.