Home » Attualità » Opinioni » Il Novecento è sul Garda

Il Novecento è sul Garda

Il Novecento è sul Garda

Da Depero a Fontana, dalla metafisica di De Chirico al realismo di Guttuso e all’astrattismo di Vedova. Al museo Mag, nell’Alto lago, va in scena un secolo straordinario d’arte italiana.

Dai fondi, dai depositi, dalle riserve infinite del Mart di Rovereto vengono i dipinti per la nuova mostra estiva del Museo Alto Garda di Riva. Non sono opere minori, non sono opere obliabili, sono capolavori. L’opportunità di stabilire nella stessa regione il dialogo tra due istituzioni importanti, ma di diverso peso, è certamente favorito dalla mia comune presidenza, e rientra nella logica non solo di possibili scambi ma anche di opportunità per far conoscere il patrimonio notevole che è destinato a non essere visto. Ragione per la quale, dopo l’entusiasmo di Gabriella Belli, abbiamo dovuto sciogliere l’accordo con la famiglia del grande pittore Tullio Crali, presente nelle sale del Mart con solo tre opere delle cento depositate. Fortunato Depero ha una casa museo. Ma innumerevoli sue opere sono in deposito.

Così, con una scelta avveduta, alcuni capolavori futuristi ritrovano la luce: da un fulminante Giacomo Balla del 1929 quando culmina la sua ricerca sperimentale, agli stessi vertiginosi Depero e Crali. Sono tutti dipinti di prima qualità come si potrebbero vedere in un grande museo internazionale. Ed erano, fino a oggi, invisibili. Con la Metafisica e Valori plastici si ritrovano esemplari, anche se ripetuti, dipinti di De Chirico, due Carrà tra i più belli, un tardo e pensoso Morandi, un superbo idolo di Campigli, un bel vaso in ceramica di Melotti e due tardi e concettosi Casorati. A queste testimonianza di culto per la forma si contrappongono due capolavori neorealistici di Renato Guttuso: Donna alla finestra, del 1942, di formidabile intarsio formale, con il richiamo cromatico alla coeva Crocefissione del premio Bergamo, di cui sopravvive un chiodo sul tavolo della stanza. Indimenticabile la sgangherata sedia di paglia. Dieci anni dopo Guttuso propose un’altra opera capitale. Già nel 1945 aveva affrontato sul piano sociologico, come ripresa della vita dopo il disastro della guerra, il tema della festa giovanile nel Boogie-Woogie per il negozio Olivetti in Via del Babuino a Roma. Una sorta di grande studio per la tela del 1953 con lo stesso soggetto, arricchito di una citazione colta a un mondo così lontano dal suo realismo narrativo ed illustrativo: il quadro sul fondo di Piet Mondrian, dipinto nel tempo estremo della sua vita, 1944. Guttuso vuole rendere omaggio a Mondrian, così lontano da lui, e lo ingloba. Il dipinto astratto si fa arredamento in un appartamento borghese di Roma. È il controcanto di un ballo frenetico, ed è il massimo del dinamismo che Mondrian si potesse concedere. In questo quadro spariscono i rigidi reticoli neri, gli stessi rettangoli dipinti nei quadri precedenti non sono più bordati da una linea nera: ora sono accostati uno all’altro. Tutto ciò ha lo scopo di riprodurre il frenetico ritmo del ballo del Boogie-Woogie. Quest’opera vuole trasmette un effetto di vitalità, suggerendo l’atmosfera della città di Broadway, riprendendo il reticolato delle sue strade e lo sfrecciare in esse dei taxi gialli.

In queste opere finali di Mondrian, le forme hanno usurpato il ruolo delle linee, aprendo una nuova porta per lo sviluppo di pittore olandese come astrattista. I quadri della serie Boogie-Woogie rappresentano il più radicale sviluppo dal momento del suo abbandono dell’arte rappresentativa avvenuto nel 1913. Difficile immaginare due mondi più lontanti di quelli di Mondrian e Guttuso, tanto più che quest’ultimo riduce l’altro a tappezzeria, e si concentra sull’episodio sentimentale e patetico della ragazza malinconica che sta sola al tavolino, bevendo e fumando. Dall’assoluto di Mondrian all’aneddotico di Guttuso. I motivi geometrici del primo non sono più idee ma decorazioni. Parallelamente al realismo del pittore siciliano si svolge la ricerca di una nuova avanguardia astratta e informale. Tra i grandi protagonisti Emilio Vedova, che dopo una stagione realistica, in contatto con il gruppo di Corrente, a fianco di Guttuso e di Renato Birolli, nel 1946 è tra i firmatari del manifesto Oltre Guernica a Milano, mentre a Venezia è tra i fondatori della «Nuova secessione italiana», poi «Fronte nuovo delle arti».

Qui germina il nuovo linguaggio astratto, che si manifesta inizialmente con motivi geometrici. Ne è importante prova Uomo e macchina, del 1949. Il percorso è compiuto. In opere come questa le scelte cromatiche si riducono al bianco e nero. Vedova si applica quasi ossessivamente a costruzioni geometriche che generano labirinti, reticoli, strutture che imprigionano la forma. Questa attenzione per la geometria sarà progressivamente abbandonata, per concentrarsi sul segno e sul gesto. L’adesione al «Gruppo degli Otto» sancisce il passaggio dal primo neocubismo delle «geometrie nere» a una pittura che interpreta le tematiche politico-esistenziali in una gestualità romanticamente istintiva e astratta, che avvicina Vedova alle poetiche dell’Informale, fino a Jackson Pollock. I sentimenti di protesta, paura e tensione hanno una pura traslazione pittorica, senza mediazioni di alcun genere. Lo vediamo nel 1962 scatenarsi nel Ciclo 62/B.B.9: una energia che si libera in un contrasto potente. La deflagrazione, lo scontro, l’incidente. La pittura è azione, lotta, tensione. Da questo urto esce un nuovo ordine. E sono gli intrecci di Giuseppe Capogrossi a ripetizione di un motivo primario, come nei graffiti preistorici, nelle incisioni rupestri della Val Camonica, o nell’arte aborigena.

Dopo il big bang di Vedova comincia un nuovo ordine del mondo, semplice, primario. E se Capogrossi resta come un mistico nel suo assoluto, il gruppo «Forma uno», con Piero D’Orazio, Achille Perilli, Pietro Consagra, Giulio Turcato, Antonio Sanfilippo e Carla Accardi, propone tessiture nuove. Tutte superfici astratte, ma non geometriche, fino a generare preziosi arabeschi.Per suo conto e con grandissima sensibilità, come un Jean Dubuffet italiano, oggi si direbbe Banksy, sta Gastone Novelli. Siamo negli anni Sessanta. Si sta creando un nuovo ordine nel mondo e, proprio a Rovereto, nasce un interprete poetico e lirico di questa condizione, quasi un equivalente di Eugenio Montale: Fausto Melotti. Il suo Quartetto è una sintesi di architettura e musica, e definisce uno spazio nuovo della mente. In mostra è assai notevole il dialogo con Mario Radice e Carlo Belli. Se queste testimonianze astratte appartengono al mondo delle idee, ben diversa e ultimativa è la degenerazione della materia nelle consonanti esperienza di Antoni Tàpies e di Alberto Burri. I sacchi, le combustioni, i cretti di quest’ultimo sono il punto più avanzato ed estremo della ricerca informale fino al disfacimento di Rosso e Nero (1954) e di Bianca Plastica (1964). I risultati di questa ricerca ci mettono davanti un’esperienza estrema, mistica, già dopo la fine del mondo, non della pittura. Di quello che è al di là, oltre la tela, ci parlerà come un poeta, come un filosofo, non come un artista, Lucio Fontana. È il ritorno di Parmenide: «L’essere è, il non essere non è».

© Riproduzione Riservata