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1921: c’era una volta il Pci

1921: c’era una volta il Pci

È avvenuta esattamente un secolo fa la scissione dai socialisti all’origine di quella che è diventata la maggiore forza della sinistra del nostro Paese. Tra obbedienza dalla ideologia di Mosca e tensioni sociali causate dalla Prima guerra mondiale, è stato un inizio drammatico segnato da conflitti interni e scontri personali.


Il 21 gennaio 1921, a Livorno, una pattuglia di delegati socialisti abbandonò il congresso, convocato al teatro Goldoni, per dare vita a un movimento che, più marcatamente di sinistra, s’ispirasse all’ideologia di Lenin. Nacque il Partito comunista d’Italia – PCd’I – padre diretto del Pci del dopoguerra, nonno del Pds e bisnonno dei Ds e dei Pd.

Pur essendo ampiamente prevista, la scissione nel Psi scontò momenti d’improvvisazione. I dissidenti si rifugiarono in un altro teatro, il San Marco, dove non si recitava da tempo e che, durante la guerra, era stato utilizzato come deposito dell’esercito. Non c’erano sedie e dovettero restare in piedi. E con l’ombrello aperto perché si era messo a piovere e il tetto non tratteneva l’acqua.

Venne indicato un comitato centrale nel quale entrarono sette massimalisti (Nicola Bombacci, Ambrogio Belloni, Egidio Gennari, Francesco Misiano, Anselmo Marabini, Luigi Repossi e Luigi Polano), sette «antiparlamentari» (Amedeo Bordiga, Ruggero Grieco, Giovanni Parodi, Cesare Sessa, Ludovico Tarsia e Bruno Fortichiari) e due di Ordine Nuovo (Antonio Gramsci e Umberto Terracini). Non fu nominato un segretario anche se la persona più rappresentativa, titolare di un rapporto diretto con Lenin, era Bombacci. Che fu anche quello che, più di ogni altro, si adoperò per «rompere» il fronte socialista e dare vita a un partito autenticamente «rosso».

I comunisti faticano a riconoscerne il ruolo perché, quando Mussolini, dopo il 25 luglio, tornò sulla scena politica proponendo una Repubblica Sociale, senza monarchia e orientata a sinistra, lo chiamò a far parte del Consiglio dei ministri. E Bombacci accettò. C’era anche lui, a Dongo, dove fu fucilato con i gerarchi fascisti, ritrovandosi con le stimmate del traditore. Ma agli sgoccioli della prima guerra mondiale, uomo di punta della sinistra intransigente, proclamava che «occorreva fare come in Russia» dove i derelitti avevano trovato riscatto. Non mancavano i voli della fantasia. Tutto ciò che riguardava il mondo sovietico veniva accettato acriticamente e «bolscevismo» era diventata una parola taumaturgica.

L’ideologia di Mosca era una fede cui approcciarsi con atteggiamento più mistico che politico. In Italia, il primo sacerdote di questo «credo» fu Bombacci, profetico anche nell’aspetto, per i capelli bianchi sempre un po’ disordinati ma, soprattutto, per il gesto imperioso quando arringava la folla. Ancora si combatteva alla frontiera e lui già immaginava la rivolta dei proletari, capaci di mettere alle corde la borghesia degli affari. Più fantasie che autentiche analisi politiche.

Poche le analogie fra la Russia di Lenin e l’Italia di Vittorio Emanuele III. Sì, certo, le conseguenze della sconfitta di Caporetto e gli scioperi per reclamare pane e lavoro rappresentavano la cartina di tornasole di un’insofferenza non superficiale ma, per arrivare a definire le condizioni rivoluzionarie, ancora ne correva. Bombacci, che con la sua azione di propaganda si era meritato il titolo di «Lenin di Romagna», riteneva che fosse possibile imitare Lenin. Quello vero. A un comizio a Ravenna invitò il pubblico a tagliargli la testa «se, perdio, entro un mese, non costringerò il re a fare le valigie!». Anche nel secolo scorso, i desideri faticavano a convivere con il mondo reale.

Promosse una riunione a Firenze invitando Bordiga, Gennari e Gramsci. Dal punto di vista dei propositi, il risultato fu irrilevante ma in quell’incontro (novembre 1917) nacque – di fatto – il Partito comunista. Per tradurre le idee in pratica, fu necessario utilizzare uomini inviati da Mosca che, nascondendosi con false identità italiane, s’inserirono nelle maglie del Partito socialista. Il più accreditato di tutti era Vladimir Degot che, segretamente, inviava i suoi rapporti all’intellighenzia russa. Relazioni nient’affatto compiacenti. Bombacci vantava le condizioni favorevoli per una spallata rivoluzionaria. Tre – secondo lui – i capi: lui stesso, Egidio Gennari e Giacinto Menotti Serrati.

Degot rettificò. Bombacci godeva di molta popolarità. «È devoto» assicurava «e si schiererà con l’avanguardia proletaria, ma gli manca l’analisi marxista di cui dispongono i compagni russi». Dunque, appena sufficiente. Bocciati gli altri due. Serrati fu giudicato «un carrierista, seduto su due sedie per accordarsi ora con la sinistra, ora con i riformisti». Gennari, invece, era considerato «un marxista geniale» ma «senza iniziativa». Era Antonio Gramsci «quello che più di ogni altro ha compreso la rivoluzione russa, ma che non può influire perché non ha presa sulle masse». Bombacci smantellò le posizioni di potere che i riformisti mantenevano ma non riuscì a impadronirsi del partito.

Una prima «resa dei conti» – fra il 5 e l’8 ottobre 1919 – avvenne durante il congresso socialista di Bologna. Il Psi aveva aderito alla «Terza Internazionale» che, superando la «Seconda», intendeva assorbire il socialismo nel comunismo. Non solo una questione lessicale. Il Comintern reclamava obbedienza assoluta al di sopra dei singoli interessi nazionali. A Bologna, con eccezionali ovazioni, furono ricevuti i delegati sovietici i quali non si limitarono a un generico saluto per l’occasione. A dimostrazione che la «Terza Internazionale» era nata per imporsi senza discussioni, presentarono un ordine del giorno perentorio. «L’armata rossa» la premessa «attende. Voi avete già compiuto un passo ma dovete fare di più». E per non rimanere nel vago: «Dovete buttar fuori dal partito i riformisti e proclamarvi comunisti».

L’ukase sovietico non piacque. Il direttore dell’Avanti! Serrati, pur essendo per la linea dura, rifiutò di pubblicare il documento sul giornale. Cacciare i socialisti moderati significava sacrificare i Turati e i Treves che avevano grande influenza nel mondo operaio. Dibattito lacerante e conclusione di compromesso. I riformisti sarebbero rimasti al loro posto ma il simbolo del Psi avrebbe ospitato falce e martello incrociati fra due spighe di grano. I pontieri della mediazione salvarono l’unità del partito ma l’accomodamento avrebbe avuto vita breve.

Nel 1921, fra i delegati socialisti che arrivarono a Livorno nessuno riteneva di poter evitare la scissione. In questa faceva affidamento anche il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, secondo il quale l’uscita dei più intransigenti avrebbe consentito un accordo di governo con i moderati. A Livorno, però, i massimalisti di Serrati contavano su una maggioranza rappresentata da 150 mila voti, poi i riformisti di Turati con 15.000 e i comunisti con 60.000.

Bombacci arrivò al congresso avvilito. Aveva promesso ai russi di portare in dote il più grande partito della sinistra e si ritrovava con un drappello di delegati ancora poco influente. E lui, personalmente, veniva da una vicenda che lo aveva negativamente marchiato. A Bologna, era stato aggredito dai fascisti e lui, invece di reagire, aveva invocato l’aiuto dei carabinieri. I militari lo avevano accompagnato a casa mentre un nugolo di facinorosi lo derideva accusandolo di essere un coniglio. Le giustificazioni del poi peggiorarono le cose. Dimentico – o, forse, inconsapevole – della parte di duro che gli attribuivano, dichiarò di non comprendere la ragione dell’agguato. «Io, il più mite dei socialisti» sottolineò. «Io che non ho il coraggio di aprire un temperino».

Come? L’irruenza della sua oratoria offriva l’immagine dell’uomo d’azione. E si scopriva che era un essere incapace di resistere alle provocazioni? Il moderatismo era considerato vigliaccheria. Per affermarsi occorreva il combattimento, la forza, la determinazione. Il gesto doveva avere il sopravvento sulla parola e i muscoli sulle idee. Non poteva che apparire fastidioso l’atteggiamento di uomo perbene che, vittima di ingiurie, si rivolgeva alle istituzioni. Le stesse che, secondo i suoi infuocati proclami, andavano abbattute.

A Livorno, il dibattito si segnalò per l’assenza di contenuti e la rissosità dei delegati. Presero il sopravvento le accuse con toni ultimativi, non senza maldicenze né malignità. E, da parte moderata, Bombacci, per essere il capofila degli scissionisti, era il bersaglio obbligato. Esagerarono tanto che lui, impugnando una rivoltella che gli era stata data da Terracini, puntò l’arma contro Vincenzo Vacirca che, dalla tribuna, lo stava contestando. «Non è un temperino!» rivendicò con tono di rivincita. Ci volle qualche attimo per riportare la calma e consentire ai comunisti di abbandonare il teatro.

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