E’ dalla risoluzione Onu del 1947 che assegnò la Striscia ai palestinesi che la questione «territori occupati» va avanti. Ma, nonostante vari tentativi, non si sono mai deposte le armi. Ecco perché.
«Gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione». Le parole del segretario generale dell’Onu António Guterres, pronunciate all’indomani della strage del 7 ottobre che ha provocato l’uccisione di oltre mille ebrei e il rapimento di 200 persone, hanno suscitato la reazione indignata di Israele, che ha accusato l’alto funzionario delle Nazioni unite di giustificare il massacro. Guterres si è difeso dicendo di aver condannato lo spaventoso assalto ai villaggi intorno alla Striscia di Gaza, ma a prescindere dalla volontà o meno di trovare una motivazione che attenui l’orrore della carneficina, resta un fatto e cioè l’attribuzione di una causa specifica per un conflitto che va avanti da quasi ottant’anni: l’occupazione israeliana da oltre mezzo secolo.
In realtà le cose non stanno proprio così, a cominciare da Gaza, ovvero da quel fazzoletto di terra da cui sono partiti gli attacchi di Hamas. È vero, una risoluzione dell’Onu del 1947 assegnò la Striscia, in cui vivono oltre due milioni di persone, ai palestinesi. Ma siccome gli arabi rifiutarono la divisione delle Nazioni unite con cui si istituivano due nuovi Stati, uno arabo e l’altro ebraico, nel territorio assegnato ai palestinesi non è mai nato uno Stato palestinese. Dal 1948 al 1967 Gaza è stata sotto il controllo egiziano e la Cisgiordania sotto quello giordano. Sì, come dice Guterres, 56 anni fa Israele occupò il territorio palestinese, ma fu una reazione ai continui attacchi dei Paesi arabi contro i villaggi israeliani. Nel 1965 vi furono 35 incursioni e nel 1966 se ne contarono 41. Nel 1967, prima che l’esercito di Tel Aviv sferrasse la controffensiva, le incursioni in soli quattro mesi arrivarono a quota 37. Mentre l’artiglieria siriana bombardava i villaggi israeliani dalle alture del Golan e apriva il fuoco contro gli insediamenti agricoli sulla costa del lago di Tiberiade, l’Egitto annunciava il blocco del golfo di Aqaba, per impedire l’uscita delle navi dal porto israeliano di Eilat.
Il clima che si respirava prima che l’esercito di Tel Aviv giocasse d’anticipo occupando Gaza e la Cisgiordania era quello di un imminente attacco su larga scala. A Radio Cairo andavano in onda dichiarazioni come le seguenti. «L’intero Egitto è pronto a lanciarsi in una guerra totale che porrà fine a Israele». «Non porteremo più pazienza. Non ci lamenteremo più di Israele presso le Nazioni Unite. L’unico metodo che metteremo in atto contro Israele sarà una guerra totale che avrà come risultato la distruzione dell’esistenza sionista». E in Siria i toni non erano certo più pacati. Hafiz al-Assad, all’epoca ministro della Difesa e in seguito presidente, annunciava che le forze siriane erano pronte a iniziare il processo di liberazione «e a cancellare la presenza sionista dalla terra degli arabi. L’esercito siriano, con i fucili puntati, è unito. Come soldato credo sia giunta l’ora di entrare nella battaglia di liberazione».
Dov’era l’Onu mentre l’Egitto ammassava truppe al confine e i siriani facevano levare in volo i Mig? Dormiva. U Thant, predecessore di Guterres, come colui che lo seguì, ovvero Kurt Waldheim (poi travolto dalle accuse per il suo passato durante il periodo nazista), non fecero sostanzialmente nulla. È così che si arriva alla Guerra dei sei giorni, alla conquista di Gaza e della Cisgiordania, oltre che del Sinai.
Certo, il segretario delle Nazioni Unite parlando di «occupazione» fa riferimento alla risoluzione del Consiglio di sicurezza che chiedeva il ritiro degli israeliani dai territori invasi, frutto di negoziati per il raggiungimento della pace. Ma dimentica di dire che l’accordo da cui scaturiva quell’intesa, accettata sia dagli arabi che dagli israeliani, stabiliva non soltanto la fine dell’occupazione della Striscia e della Cisgiordania, oltre che del Sinai, ma anche «il riconoscimento di sovranità, di integrità territoriale e di indipendenza politica di ogni Stato della Regione, nonché del loro diritto a vivere pacificamente in confini sicuri e garantiti». Una clausola che i Paesi arabi, con l’eccezione dell’Egitto dopo che a Gamal Abd el-Nasser subentrò Anwar al-Sadat, rifiutarono di rispettare.
E così si arriva al 2005, quando Ariel Sharon, contro il parere del suo stesso partito, decise il ritiro unilaterale da Gaza, sgomberando con la forza 21 insediamenti israeliani nella Striscia e quattro in Cisgiordania. Nelle sue intenzioni la mossa avrebbe dovuto rappresentare una svolta, per il raggiungimento di una pace definitiva. In realtà, con il senno di poi, fu solo la prosecuzione della guerra, di cui oggi vediamo i risultati.
