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No al sindacato politico

No al sindacato politico

Parla Luigi Sbarra, numero uno della Cisl, uomo dalle posizioni ben diverse rispetto ai colleghi di Cgil e Uil. Lui è convinto che sia più funzionale un confronto con il governo, invece di un muro contro muro che somiglia a una battaglia da opposizione. Ed entra sui temi, dal salario minimo («Chiederlo per legge è un errore») al Fisco e alla formazione («Ci sono le risorse per farla»). Con un obiettivo: che i lavoratori possano condividere la gestione delle aziende.


La storia della Triplice – Cgil, Cisl e Uil – è fatta di continui tira e molla. La consapevolezza che muovendosi insieme si ottengono i migliori risultati vacilla sotto i colpi dell’istintiva necessità di distinguersi. La Cgil – lo conferma la sua vicenda – ha un rapporto di contiguità con i partiti di sinistra e con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e un Pd ridotto ai minimi termini subisce la tentazione di ergersi a vera opposizione nel Paese. In questa questa fase viaggia di pari passo alla Uil e dall’altra parte c’è la Cisl, dialogante per natura, concertativa e democristiana nell’accezione «trattativista» del termine. Il numero uno Luigi Sbarra non va in piazza con sinistra e movimenti antagonisti (a differenza di Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri) e, provocato, è arrivato forse come non mai, ai ferri corti con la Uil su salario minimo, contratti pirata e rapporti istituzionali con i sindacati autonomi.

Segretario, siete preoccupati di restare isolati?

Per niente. La Cisl è stata sempre gelosa custode del valore dell’autonomia del sindacato dalla politica. Sbagliato mescolare le due funzioni di rappresentanza, il rischio è di indebolire sia il ruolo dei sindacati sia quello dei partiti. Il nostro mestiere è contrattare e negoziare per conquistare risultati in coerenza all’unico mandato che ci interessa, che è quello dei nostri associati.

Però se si contratta uniti si è più forti.

Certo. Ma è altrettanto vero che per raggiungere risultati servono relazioni sociali stabili e affidabili con il governo e il sistema delle imprese, evitando la contraddizione di stare con un piede ai tavoli di trattativa e con l’altro sulle barricate. Proposte, contenuti e confronto sempre: la piazza quando serve.

Secondo lei Landini avrebbe lo stessa posizione intransigente anche con un governo di colore diverso da questo?

Questo si dovrebbe chiederlo a Landini. Noi ci confrontiamo e negoziamo, da quando siamo nati, con tutti i governi senza pregiudiali tenendo fermi i nostri valori fondativi: responsabilità, pragmatismo, autonomia dalla politica, contrattazione, partecipazione.

La Cgil sembra quasi augurarsi un autunno caldo, parlando di stasi ai tavoli su lavoro, pensioni e fisco e di vertenze in sospeso, dall’ex Gkn all’Ilva, voi siete più ottimisti?

Noi ci siamo mobilitati ad aprile e maggio unitariamente per riallacciare con il governo un dialogo che si era indebolito nei mesi precedenti. Penso che l’obiettivo sia stato raggiunto. Si è aperta una fase nuova di dialogo : ora dobbiamo stare incollati a tavoli per conquistare avanzamenti coerenti con i contenuti della nostra piattaforma. Verificheremo i frutti del negoziato e le disponibilità dell’esecutivo, sapendo regolarci di conseguenza, senza fare sconti a nessuno.

Allora proviamo a dare qualche voto al governo. Sul fisco?

È presto per dare voti. Bene l’intervento sul taglio del cuneo contributivo, ma deve essere rafforzato, diventare strutturale. Risponde a una nostra precisa rivendicazione l’incremento della soglia detassata dei fringe benefit sino a tremila euro. Se si continua in questa direzione si può azzerare la tassazione sulle retribuzioni premiali e detassare le 13me per lavoratori e pensionati. Bisogna restituire il fiscal drag e rilanciare l’azione di contrasto all’evasione fiscale e contributiva.

Lavoro?

Importante aver restituito la regolazione dei contratti a termine alla contrattazione collettiva, mentre va rafforzato l’incentivo sulle assunzioni stabili collegandolo a un grande piano di politiche attive.

Le politiche attive sono cruciali, ne parla tanto anche il sindacato, ma di fatti se ne vedono pochi.

Noi facciamo la nostra parte e siamo pronti a prenderci più responsabilità, ma difficile dire che la mancanza di formazione in Italia dipenda dai sindacati.

Di chi è la colpa?

È una vera emergenza, un freno alle tutele, ai salari e alla crescita. Da sempre mancano in Italia l’attenzione alla formazione delle competenze che chiede il mercato, a partire dall’orientamento scolastico e formativo, e un investimento effettivo sulle politiche attive. Ora nel programma Gol («Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori», finanziato con il Pnrr, ndr) ci sono le risorse, chiediamo al governo di accelerare.

Non parte anche da qui il problema del lavoro sottopagato?

E anche in buona parte di quello in nero. Per ridurre il bacino di lavoratori con competenze inadeguate ed obsolete servono sistemi di prossimità che facciano incontrare scuola, imprese, centri per l’impiego, agenzie per il lavoro, formazione professionale accreditata, Its, enti bilaterali.

C’è un problema di qualità del lavoro, ma anche di basse retribuzioni. Perché siete contrari a una legge sul salario minimo?

Non siamo contrari, noi diciamo che il salario minimo ci vuole, e anche subito, ma deve essere di natura contrattuale. Deve essere definito, settore per settore, dall’estensione dei trattamenti economici complessivi dei contratti collettivi prevalenti, che sono in media ben al di sopra dei 9 euro l’ora, ma che contengono anche tante altre tutele normative: dalle tredicesime alle maggiorazioni, dalla sanità alla pensione integrativa e al Tfr. Un buon contratto è sempre meglio di una cifra fissata dalla legge.

Cgil e Uil invece sono d’accordo con la proposta di legge dei Cinque stelle e tutta la sinistra per introdurre il salario minimo a 9 euro. Come mai?

Va chiesto a loro. La nostra posizione è limpida e chiara.

Sta di fatto che il sindacato vive una grave crisi di rappresentanza. Dovete fare qualche «mea culpa»?

Mah, la Cisl è cresciuta negli ultimi anni con circa centomila nuovi iscritti solo tra i lavoratori attivi. Alle ultime elezioni delle Rsu pubbliche hanno votato circa il 90 per cento degli aventi diritto. Vogliamo fare un confronto con l’affluenza alle ultime politiche?

Ma pare che abbiate meno capacità di incidere sulle scelte della politica.

È una narrazione falsa. Certo che il sindacato deve evolversi e raccogliere le nuove sfide a partire dagli impieghi che tendono a isolare le persone. Proprio per questo insistiamo da anni sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese: è la vera riforma di cui il Paese ha bisogno.

Cosa cambierebbe?

I dipendenti possono e devono dire la loro su qualità e localizzazione degli investimenti, su organizzazione del lavoro e redistribuzione degli utili. Sarebbero responsabilizzati e meno inclini a cedere nelle proteste strumentali. Sarebbe una svolta in linea con il modello tedesco. Stiamo raccogliendo le firme ma non vogliamo una legge impositiva. Lo Stato può e deve incentivare gli accordi contrattuali per attuare finalmente l’articolo 46 della Costituzione, che riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende.

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