Il nuovo libro della firma di Panorama racconta di evasori, speculatori e criminali assortiti che hanno messo le mani su cifre stratosferiche e affollano le cronache. Ma l’operazione verità va oltre: perché ci sono anche illustri manager che incassano stipendi multimilionari, mentre la maggioranza dei lavoratori fatica ad arrivare a fine mese.
Francesco Lerose, 53 anni, di Pergine Valdarno, provincia di Arezzo. Reddito: 15mila euro l’anno, poco più di mille euro al mese. Avrebbe dovuto fare la fame. O quasi. Invece è riuscito a mettere insieme un patrimonio di tutto rispetto: cinque case, due magazzini, tre autorimesse, nove conti correnti con un deposito di circa un milione di euro, sei auto di lusso (tra cui tre Mercedes e un Porsche Cayenne), sei autocarri, quattro trattori, un furgone, 31 terreni, un pascolo, un bosco e un vigneto. Suo figlio Manuel, a soli 28 anni, età in cui la maggior parte dei coetanei fatica a pagarsi un bilocale in affitto, risulta proprietario di una villa di 11 vani, oltre che di tre conti correnti, tre terreni e svariati altri beni immobili.
Soldi guadagnati sul campo? Sì. O meglio: sui campi. Avvelenati, però. Almeno secondo quanto risulta dall’inchiesta Toscana Connection. Secondo i magistrati, infatti, l’allegra famigliola Lerose era il tramite dei clan calabresi che smaltivano gli scarti delle concerie toscane spargendoli in tutta la regione, al di fuori di ogni regola e controllo, vicino a centri abitati, vicino ai terreni coltivati, mettendo a rischio la salute dei cittadini e inquinando una delle zone più belle del mondo. Un business d’oro a quanto pare. In una delle intercettazioni dell’inchiesta si sente Francesco Lerose dire a un suo dipendente: «Ci potevi mettere pure una palata più pesante…». Intendeva «una palata di veleno», ovviamente. Del resto ogni palata di veleno per noi è una palata d’oro per lui. È così che le iene diventano ricche. E maledette.
Nei periodi di crisi molti s’impoveriscono. Ma molti s’arricchiscono. In questi ultimi mesi abbiamo visto aumentare le code davanti alle mense dei poveri e quelle davanti ai negozi di gioielli. C’è la fila alla Caritas per avere un pacco alimentare e c’è la fila al cantiere per comprare un superyacht di lusso. Negli ultimi anni, fra pandemia e guerra, 163 milioni di persone nel mondo sono piombate nella miseria, ma i dieci uomini più ricchi del pianeta hanno guadagnato 15mila dollari al secondo, 1,3 miliardi al giorno. Dal 2009 in Italia i salari sono diminuiti del 10 per cento, ma i miliardari (classifica Forbes) sono aumentati del 300 per cento (da 12 a 51). Negli anni Cinquanta un manager come Vittorio Valletta, capo della Fiat, guadagnava 12 volte più di un suo operaio, oggi l’ad di Stellantis Carlos Tavares guadagna 758 volte più di un suo operaio. Siamo sempre più poveri. Ma, nello stesso tempo, sempre più ricchi.
Sia chiaro: la ricchezza, di per sé, non ha nulla di negativo quando è onesta, meritata e non ostentata. Quando è il giusto premio per un merito, uno sforzo o un talento. Ma come può essere tollerato un manager del settore energetico come Patrick Pouyanné, a.d. di TotalEnergies, che mentre le famiglie non riescono a pagare le bollette pubblica il suo stipendio sui social (circa 6 milioni di euro, 5.994.129) e si lamenta: «Ora smettete di dire che guadagno troppo?». Prendi 16.600 euro al giorno e ti lamenti? Con che coraggio? Ed è giusto che un manager di una casa farmaceutica come Albert Bourla, che prima del Covid non era certo alla fame (27,7 milioni di euro l’anno, 77 mila euro al giorno) ora guadagni 45,3 milioni di euro l’anno (125 mila euro al giorno)? È giusto moltiplicare in questo modo le proprie entrate sulla pelle della gente? Erano dunque dei pazzi Jonas Salk e Albert Sabin che dopo aver inventato il vaccino contro la poliomielite rinunciarono ai brevetti? Ancora peggio, poi, quando le ricchezze non sono solo eccessive o ostentate, ma sono il frutto di frode, inganno o truffa a spese dei poveri. È sempre disdicevole. Ma nei periodi difficili come questo diventa insopportabile. Perciò ho scritto Maledette iene: per fare nomi e cognomi di chi fa soldi sulla pelle altri. Perché nessuno di loro deve restare impunito.
Mario Burlò, per esempio, in poco tempo è passato da nullatenente a un «clamoroso imprenditoriale». Come ha fatto? Semplice: si è messo al servizio dei calabresi che hanno trasformato la pacifica cittadina piemontese di Carmagnola, nota per i peperoni e il porro dolce, in una roccaforte delle cosche. Christian Visentin di San Fior, in provincia di Treviso, è riuscito a convincere 6 mila persone: giurava di avere un software speciale per guadagnare con i bitcoin. Così ha raccolto dai risparmiatori 300 milioni di euro dei risparmiatori, li ha fatti sparire ed è andato a spassarsela a Dubai tra yacht e appartamenti di lusso. Giovanni Maspero, proprietario dei Tigli in Theoria, ristorante stellato di Como, avrebbe evaso 102 milioni di euro: inseguiva sogni di grandezza (voleva imitare Gianni Agnelli e l’Aga Khan e vincere la Coppa America con una sua barca a vela), ma l’ha fatto «a spese dei contribuenti, sulle spalle della collettività» come dicono i magistrati.
Francesco Calderone, detto Ciccio, è diventato il re delle ambulanze: vinceva i contratti d’appalto in tutta Italia, dalla Brianza a Napoli, da Pavia alle Marche, da Roma a Pescara, salvo poi offrire servizi scadenti, mezzi non sanificati o non idonei (uno dei veicoli indicato come ambulanza è risultato essere in realtà uno spazzaneve…). In compenso «usava la società come un bancomat» per pagarsi ogni tipo di lusso, case, vacanze, Rolex, shopping in via Montenapoleone. Tutto sul conto del Pronto soccorso. Persino una cena in cui ha speso 5.919 euro con oltre 3 mila solo di vini. Roba da star male. Roba da chiamare un’ambulanza. Una delle sue, magari. Così impara. Bisogna fare i nomi e i cognomi. Bisogna raccontare le storie. Per capire quello che sta succedendo. Per impedire che succeda ancora. Mai come nei periodi di incertezza aumentano le frodi, come denuncia la Consob. Non a caso il reato di truffa, negli ultimi dieci anni, è quello che è cresciuto di più (+152 per cento). E spesso si nasconde dietro volti insospettabili.
A Milano c’è una famiglia di immobiliaristi molto nota, quella dei Moro. Sono loro che hanno costruito il grattacielo andato a fuoco il 29 agosto 2021. Soltanto per un miracolo non ci furono vittime. L’inchiesta ha accertato che l’incendio è stato causato dai «macroscopici vizi di progettazione» dovuti a «condotte pienamente deliberate e consapevoli». In pratica: sapevano che usando pannelli scadenti e combustibili, anziché quelli ignifughi annunciati nel progetto originario, avrebbero messo a rischio la vita delle persone. Ma lo hanno fatto lo stesso. In una delle intercettazioni dell’inchiesta c’è un venditore di pannelli che, preoccupato per i rischi, suggerisce ai Moro un modello più sicuro, ma loro non lo accettano perché costa 95 centesimi in più. Novantacinque centesimi. I magistrati hanno congelato ai Moro 25 milioni di euro. Li stavano portando all’estero per non dover pagare i risarcimenti. Maledette iene. Non resterete impunite.
