A Palazzo Doebbing di Sutri riprendono i Dialoghi 2020 tra opere d’arte di periodi diversi, con il filo conduttore della bellezza. Ecco che le preziose testimonianze di epoca pre-medievale si confrontano con gli splendori di pitture d’ambito giottesco.
Riprende, dopo una pausa più lunga del previsto, il ciclo delle mostre a Palazzo Doebbing di Sutri. Certamente una regia unica, e anche il desiderio del sindaco, tra le mille difficoltà amministrative, di dare ai suoi concittadini tutto quello che in Italia, almeno nel campo dell’arte e in uno dei suoi borghi più belli, è tema centrale e costituzionale, da mostrare in un palazzo con le migliori condizioni espositive in tutta la Tuscia.
Le incertezze, i limiti, gli inganni di molti sindaci rendono difficile se non impossibile l’impresa che, in una complessa composizione, si realizza a Sutri. Per me è un dovere ed è anche la ragione per la quale ho scelto di rianimare un luogo perfetto vicino a Roma con tutta l’abilità, l’esperienza e gli artifici del mio privilegiato mestiere.
L’importante intervento nel Palazzo, che un tempo fu del vescovo, dell’architetto Romano Adolini consente, a fianco delle sale destinate al museo d’arte sacra, di avere spazi versatili in cui con limitate dotazioni, e questa volta grazie all’intervento della banca Intesa Sanpaolo, si possono mettere in collisione esperienze artistiche lontane e diverse. Non è mio compito né mia prerogativa l’ordinaria amministrazione, ma è mio orgoglio arricchire la città di iniziative altrimenti impossibili.
La storia di Sutri dopo la grande stagione etrusca e romana è, per la sua posizione geografica, sulla Cassia alla volta di Roma, storia di incursioni barbariche che la investono tra il V e il VIII secolo a.C. Quando il papa capì le intenzioni dei longobardi – probabilmente intenzionati a conquistare la stessa Roma – si sentì minacciato, in quanto era preferibile l’autorità di un imperatore eretico ma lontano, piuttosto che quella di un energico sovrano vicino. Nel 728 quindi Liutprando conquistò la città di Sutri e il suo castello dalle milizie bizantine e Papa Gregorio II chiese e ottenne, con molto sforzo, di rinunciare ai territori già conquistati.
Liutprando, invece di rinunciare a favore dei bizantini (ai quali, secondo diritto, dovevano essere restituiti in quanto legittimi possessori) donò ai «beatissimi apostoli Pietro e Paolo» il castello di Sutri. La donazione aveva a oggetto la cessione gratuita alla Chiesa di Roma oltre che di Sutri, di alcuni castelli laziali (Bomarzo, Orte e Amelia). Nasceva così il patrimonium Petri, primissimo nucleo del potere temporale della Chiesa, che sarebbe durato fino al 1870.
Già nel 742, Liutprando aveva restituito al Pontefice (Papa Zaccaria) per donationis titulo quattro città (tra cui Vetralla, Palestrina, Ninfa e Norma) da lui occupate e una parte dei patrimoni della Chiesa in Sabina, sottratti dai duchi di Spoleto oltre 30 anni prima. Liutprando, dal canto suo, aveva fatto allentare temporaneamente le tensioni con gli altri duchi longobardi, soprattutto dei ducati periferici e quindi più autonomi di Spoleto e Benevento, evitando una guerra civile.
Storicamente, la Donazione di Sutri sarebbe successiva alla Donazione di Costantino del 321, con cui l’imperatore Costantino I cedeva alla Chiesa di Papa Silvestro I sovranità sullo Stato della Chiesa, donando il palazzo del Laterano, i simboli imperiali e la città di Roma. L’autenticità della donazione costantiniana venne tuttavia messa in discussione già nel XV secolo dall’umanista Lorenzo Valla, che ne dimostrò la falsità su base linguistica e filologica: essa sarebbe stata approntata, invece, tra l’VIII e il IX secolo. Il primo vero atto formale per la istituzione del Patrimonio di San Pietro sarebbe costituito, dunque, dalla Donazione di Sutri.
A conferma di questa tesi ci sarebbe il fatto storico della nascita della «repubblica di san Pietro» nell’VIII secolo, intesa non solo come «Stato dei Papi» ma anche come entità politica autonoma, dotata di proprie strutture di governo e di un territorio. Il ruolo della donazione è stato tuttavia ridimensionato, non essendo più considerato l’atto formale di nascita di un potere temporale papale; ma rispetto alle molteplici donazioni avvenute anche prima del 728 a favore della Chiesa romana, va sottolineato che la donazione di Sutri acquista un valore simbolico notevole dato che ciò segna il riconoscimento di una sovranità che di fatto il papato esercitava sui territori romani, a discapito del governatore bizantino.
Va ricordato comunque che grandi problemi e difficoltà investono le questioni storiografiche relative alla nascita di uno Stato della Chiesa e del potere temporale del papato; e spesso divergenti sono le interpretazione che atti – come quello di Liutprando – hanno subìto negli anni.
Di questo momento cruciale per la storia di Sutri sono le lamine di ambito bizantino e longobardo presentate con la denominazione felice di «petala aurea», con riferimento alla loro fragilità e leggerezza, realizzate per decorare manufatti in legno, osso o avorio, cuoio, ma anche per essere cucite su tessuti, in particolare abiti cerimoniali e d’uso liturgico.
Una sezione è dedicata alle crocette, rinvenute all’interno di sepolture e dunque probabilmente cucite al sudario dei defunti attraverso i forellini presenti. Dal punto di vista iconografico, i pezzi in collezione presentano motivi geometrici e «fitomorfi», in alcuni casi monogrammi, figure umane e animali, figure femminili e maschili viste di fronte. Rinasce così davanti a noi, sotto specie di lamine dorate, con immediatezza, nel presente , un mondo remoto che ci riporta a 1292 anni fa, quando, a Sutri, la chiesa fondò il suo potere temporale.
Un’inesausta passione ha indotto Luigi Rovati a cercare in quelle lamine frammenti di una storia remota: nella loro irregolarità, nella loro asimmetria, nella loro fragilità, nelle loro ammaccature, nelle loro deformazioni quelle «brattee» sono, letteralmente, foglie d’oro con la stessa leggerezza di foglie e petali animati da una imprevedibile vita. In quelle lamine si manifesta una storia fatta di desideri e di sospiri per sempre perduti con gli abiti e gli oggetti che le sottili lamine adornavano.
Questa storia lontanissima è storia degli anonimi artigiani che plasmavano le forme nel pensiero di Dio. Ma da qui ci si sposta al momento in cui l’arte è espressione di individui che reinterpretano la storia di Dio attraverso la sensibilità degli uomini. La vita, la passione, il dolore sono la misura della umana fragilità di Cristo e di sua madre, in una espressione di dolore tutto umano.
Di questo ci parla Giotto nelle sue mirabili e umanissime immagini sacre. Un frammento ne vediamo, sullo scorcio del XIII secolo, nel dossale con la Vergine al tempo del Crocifisso di Santa Maria Novella, semplice e disarmata, e anche rassegnata, in una semplicità verginale, soprattutto nella forma ancora timida e acerba.
Presto la Madonna assumerà un’espressione intensa e drammatica come nella croce ritrovata della collezione Sgarbossa di Cittadella che testimonia una originale reinterpretazione del Crocifisso di San Felice in piazza di Firenze. Presentare Giotto a Sutri è riflettere sulle origini del linguaggio moderno nell’arte.
