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Alla ricerca delle parole perdute

Alla ricerca delle parole perdute

A fronte di una comunicazione quotidiana che si riempe la bocca di espressioni insopportabilmente «alla moda» (e di cui spesso ignora il significato), è bello vagabondare tra termini desueti e dimenticati. Un originale «vocabolario» li mette in fila e l’effetto
è quello di euforica riscoperta di una lingua differente.


La lingua che parliamo è sommaria, semplificata, disadorna, con una certa frequenza è anche ferita, alcune parole si fanno abitudini e diventano vizi. Alcune vengono dalla lingua inglese, si impongono e hanno altalenante fortuna, come «hobby»; oppure tentano di insinuarsi nel linguaggio quotidiano, come «brunch». «Lunch» non è passato, ha resistito «pranzo»; ma poi, nelle diverse fasce sociali, si sovrappongono colazione e pranzo e pranzo e cena. Sulla prima colazione non ci sono dubbi, ma all’improvviso appare, a destituire dignità, oltre l’ultima, «apericena», e anch’essa rapidamente tramonta perché dopo le 18 non si può più mangiare.

Per la cena e per l’apericena non c’è scampo. Ma poi sarà un «coprifuoco» o un «lockdown», mai prima pronunciato? E ancor meno immaginato? In realtà nulla può competere con l’aura di «clausura». Improvvisamente cala dall’alto «narrazione», tentativo riuscito di contrastare «storyteller». Ma nulla ripaga della distruzione di palazzi, castelli, rocche, ville, teatri, borghi, e ogni altro luogo remoto e pittoresco (raramente sublime), con l’avvento della pestilenziale «location». Chi la pronuncia si danna a una vita senza affetti, perdendo ogni «sex appeal».

A sua volta un termine che resiste da forse 50 anni, avendo tramortito la banale «attrazione», che però ha generato l’aggettivo «attrattivo», che vale per località turistiche o beni in promozione. Ai quali convengono imperdibili «eventi». Una «location» per «eventi» unici (benché frequentissimi).

Che la lingua inglese contagi quella italiana è, da anni, scontato. Lo scrittore Paolo Monelli, in ossequio ai dettami dell’autarchia fascista, ne scrisse un libro: Barbaro dominio. Ma mai così barbaro come quando è esercitato nella nostra stessa lingua. Comincia a inflazionarsi «ristori» (ma c’è ancora tempo), e invece, come una scarica mortale, sono arrivati, affermandosi in mode: «filiera», «sinergia», «sviluppo sostenibile», e «fruizione» (quest’ultima, diffusissima, colpevole di aver ucciso la parola che la precedeva, almeno rispetto ai «beni culturali» a loro volta assassini di «belle arti»): godimento. Il godimento è imperdonabile e andava espunto, richiamava troppo il piacere erotico, occorreva una formula che ne indicasse il carattere di mero sfregamento causale: «fruizione», appunto. Quaresimale.

Ma mai la metastasi era andata così avanti, nell’ammalare (o il più intensivo «ammalorare») la lingua, come con l’uso, l’abuso e il compiacimento colto, o l’ammiccamento, abusivo in qualunque contesto, peggio se politico, di «resilienza». Mario Draghi, che sicuramente non l’ha mai usata per 70 anni, l’ha infarcita nove volte nel suo discorso per la fiducia alle Camere, culminato con il neologismo nato morto (per sostituire il generico «ambiente»): «transizione ecologica». Non avrà fortuna, e verrà presto dimenticata. Ma è sembrata necessaria all’incolto popolo grillino più per il prefisso «trans» che per il concetto che adombra, di passaggio da una consuetudine all’altra, nel rapporto e nel rispetto della natura.

Su «resilienza», un colto liutaio (mestiere raro come l’uso della parola), mi ha inviato una bellissima nota di un suo amico ingegnere, particolarmente raffinato: «Parimenti appena ho intercettato il termine resilienza mi sono insospettito. La resilienza mi è assolutamente familiare, dato che mi sono occupato di progettazione meccanica e di caratterizzazione fisica dei materiali per almeno un quarto di secolo. Esattamente si tratta dell’energia necessaria per aprire una frattura in condizioni dinamiche, ovvero sotto l’azione di una forza a carattere impulsivo. Successivamente il termine è stato adottato, con slancio creativo, dal mondo delle scienze umane. Non mi fraintendere, personalmente amo i meccanismi di straniamento, in particolare l’uso creativo di parole fuori dal loro consueto contesto. Purtroppo questa resilienza è stata già molte volte riscoperta subendo un dilagare esplosivo, dalla frontiera di ricerca alla divulgazione a basso impegno. La si trova poverina ormai prezzemolificata in contesti vaghi ancorché a carattere di breve saggio, pubblicistica gratuita, riviste leggere targhettizzate su un pubblico femminile, conferenze aziendali, arringhe di sedicenti motivatori. Purtroppo come scriveva Rodari, alcune idee appena nate si sono mostrate bellissime nella loro ingegnosa originalità, poi qualcuno se n’è impadronito senza accorgersi del fatto che la copia non ha la medesima energia, facendole fare la fine della rima cuor-amor che, come il pezzetto di sapone sul fondo del lavandino, viene condannata a un lento processo di consunzione».

Il colpevole abuso del presidente del Consiglio gli è costato il mio voto, che non poteva essere di fiducia, neppure «resiliente». Mentre il mio orecchio era ferito, osservavo che «narrazione» non è ancora consunta, nonostante la lunga fruizione, in una virtuosa sinergia, nella filiera della resilienza per uno sviluppo sostenibile. Una improvvisa apparizione, che potrebbe dirsi un vero e proprio evento, è il libro di una giovane che si definisce «artista e archeologa del linguaggio»: Sabrina D’Alessandro. Con il benemerito URPS (Ufficio Resurrezione Parole Smarrite), ha raccolto il materiale per Il libro delle parole altrimenti smarrite (Rizzoli, pp. 416, 16,90 euro), con una partecipe introduzione di Achille Bonito Oliva, il meno adatto, nel suo depauperato linguaggio, per introdurre un libro esilarante, dove si affacciano parole più spesso morte che dimenticate. Comunque rispetto alle inflazionate «fruizione» e «resilienza», definitivamente consunte, le parole smarrite sono dense, intense, saporite e, parzialmente, desuete. Andare a cercarle è un piacere incontenibile, anche quando non ne cogliamo il significato.

Il precedente, ma in una lingua completamente inventata, sono le Fànfole, poi perfezionate in Gnosi delle fanfole, e, ancora, nel Nuvolario, dell’antropologo e scrittore Fosco Maraini. È da allora che non provavo un così compiuto piacere, nonostante qualche ingenuità generazionale dell’autrice. Non smarrite (ma ignote e inusate per la troppo giovane autrice, divertita e compiaciuta) sono certamente: «diuturno, «succubo», «incubo», «utria», «albagia», «baciapile», «rodomonte», «ciuffeca» (vale per «ciofeca»), «sesquipedale», «burbanzosa», «mammalucco», «cicisbeo», «foia», «superfetazione» (frequentissima nel settore della speculazione edilizia), «gualdrappa», «frescante», «sanificante» e perfino «calepino», rimasto impigliato nella generazione precedente la mia.
Ma quale soddisfazione, culminante in euforia, è leggere «ribobolone», trovare «sbaiaffa», «pappaceci», «nubivago», «risbaldente», «imparavolato», «deosculazione», «daddolosa», «farabolona», «rofidiosa», «minchionevolezza», «bubbolante», «flagizio», «culaio», «sgarzigliona», «quilio», «vogliolosa»,«scutrettolante», «lisciardosa», «stracciabugnoli», «rabaga’», «raperonzolo», crisaiolo», «pompinoso», «struggimondo», «incantanebbia»…

Un libro esilarante, facile e difficile, scutrettolante e piuttosto malarmato. E c’è qualcosa di ammirevole, di figurativo o di plastico nella riemersione di queste parole, aldilà del loro uso, e comunque mai abuso. Un dizionario stimolante, come ha riconosciuto un vero virtuoso, un acrobata della parola, Stefano Bartezzaghi: «Una macchina che rimette in vigore parole meravigliose che ci paiono risuonare in una musica che non abbiamo mai sentito, risplendere di colori che non abbiamo mai visto». Forse occorre risalire al libro più bello stampato in Italia, nel 1499: l’Hypnerotomachia Poliphili. E accostare questa ricerca all’Arcimboldo e ad Adolf Wolfli. Irresistibile.

Alla ricerca delle parole perdute
Un’ illustrazione di Sabrina D’Alessandro da “Il libro delle parole altrimenti smarrite”. (Rizzoli)
Alla ricerca delle parole perdute
Un’ illustrazione di Sabrina D’Alessandro da “Il libro delle parole altrimenti smarrite”. (Rizzoli)
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