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Quel lavoro sarà «smart» ma non è normale

Quel lavoro sarà «smart» ma non è normale

Dopo il Covid dipendenti e aziende chiedono di continuare a lavorare da remoto. Ma le attività svolte in solitudine sono contro la natura umana.


Lo smart working è duro a morire. Il 58% circa delle aziende dichiara che «stanno trovando difficoltà ad assumere, o trattenere i dipendenti, se non viene garantito lo smart working», e «oltre l’88% ha confermato che dopo il 30 giugno continuerà la possibilità di lavorare in smart working e da remoto, contro l’11% che ha espresso un’intenzione contraria».

Lo si legge in un’indagine dell’Aidp (Associazione italiana per la direzione del personale) cui hanno risposto 850 tra professionisti e imprese: emerge che questa modalità introdotta durante la pandemia è diventata fondamentale per gli italiani. La prospettiva «è il lavoro ibrido tra modalità in presenza e da remoto: il 38% delle aziende, infatti, ha affermato che i dipendenti potranno lavorare da remoto almeno due giorni a settimana e il 14% almeno un giorno. Negli altri casi, con percentuali minori, si va dai tre ai cinque giorni fino a una presenza di un solo giorno al mese».

Insomma, questo benedetto smart working sembra avere la pelle dura e pare ormai che si sia trasformato in una consuetudine dalla quale, evidentemente, è difficile staccarsi. Diciamo subito che secondo noi non è un fatto positivo perché: o da Aristotele, il quale sostenne che l’uomo è un animale sociale e non solitario, in poi si sono tutti sbagliati ed è cambiata la natura umana trasformandosi da sociale in eremitica; oppure dobbiamo dire con chiarezza che lavorare da soli a casa non può essere la normalità, non può rappresentare il modo consueto, ma soprattutto naturale, di lavorare.

Non è una questione pura e semplice, come qualcuno la vuol far passare, di organizzazione delle varie attività o – ancora più modestamente – di «comodità», è una questione ben più profonda che attiene alle caratteristiche e alla conformazione della persona umana. Non si abbia l’impressione che partiamo un po’ troppo dall’alto perché in realtà stiamo partendo dal basso, cioè dalla realtà, in particolare da due considerazioni elementari.

La prima: salvo rare eccezioni l’uomo è fatto per lavorare in compagnia degli altri perché questo esprime e consolida la sua dimensione umano-sociale, innegabile e intrascendibile. La seconda: anche qui, salvo rare eccezioni, l’abitazione non è il luogo del lavoro bensì della famiglia e l’esperienza del Covid ha insegnato in modo inequivoco che la permanenza a casa per l’attività di tutti i membri della famiglia (studio e lavoro) non rientra nella fisiologia ma nella patologia.

Se questi ragionamenti hanno un qualche grado di veridicità allora occorre essere conseguenti e affermare che la faccenda non va presa sottogamba, né può essere smerciata come qualcosa che attiene alla comodità e alla qualità della vita dei lavoratori. Non scherziamo col fuoco, cioè con le differenze, che non possiamo dimenticare, dei ruoli tra famiglia e luogo di lavoro, tra quest’ultimo e permanenza fra le mura di casa, tra spazio domestico e lavorativo. Chissà cosa avrebbe detto Karl Marx se, quando scrisse i Manoscritti economico-filosofici del 1844, ci fosse stato lo smart working.

Ovviamente non lo possiamo sapere, ma quello che sappiamo per certo è che una delle quattro forme di alienazione del lavoro consisteva proprio nell’alienazione dagli altri uomini rispetto ai prodotti del lavoro realizzati dai suoi simili. Possiamo azzardare che se questo era vero nell’impiego salariato della rivoluzione industriale, tanto più potrebbe esserlo oggi nel lavoro che ognuno svolge a casa, da solo, senza contatti con gli altri all’interno delle più o meno anguste pareti della propria abitazione. Non possiamo attribuire a Marx ciò che Marx non ha scritto, ma possiamo immaginarlo, magari sbagliando.

In conclusione, una cosa sono i dati emersi da una ricerca – certamente condotta con tutti i crismi del caso – un’altra è considerare che quello che viene detto sia giusto, naturale ed esprima fino in fondo le esigenze della natura umana. Noi non lo crediamo assolutamente. Al contrario, speriamo che questa tendenza preoccupante venga ricondotta entro l’alveo giusto, dopo quella che consideriamo a tutti gli effetti una ubriacatura.

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