Fra pochi mesi scoppierà la rabbia del ceto medio. Una collera profonda, che rischia di sfociare in una depressione. La peggiore malattia per qualsiasi economia.
Ogni giorno arrivano al mio indirizzo di posta elettronica le testimonianze di un disastro. Non so come se la siano procurata, ma alla casella email personale giunge la cronaca quotidiana di ciò che sta accadendo in Italia ai tempi del coronavirus e quelle lettere valgono più di qualsiasi studio. A scrivere sono piccoli e medi imprenditori, camionisti che sono stati costretti a fermare il loro autocarro, albergatori che hanno dovuto rassegnarsi davanti alle stanze desolatamente vuote, artigiani che hanno riposto gli attrezzi perché non ci sono ordini da evadere.
La lista è lunga: professionisti, negozianti, lavoratori autonomi. Tutti colpiti dalla stessa malattia, un virus che ha ucciso migliaia di persone, ma che oltre a portarsi via uomini, donne e affetti sta trascinando con sé anche il futuro di chi si è salvato. Ne hanno viste tante i lettori che mi scrivono. Le crisi di questi anni li hanno messi a dura prova e tuttavia in qualche modo sono sempre riusciti a cavarsela. Magari con qualche ferita in più e molti soldi in meno, ma seppur con diverse difficoltà ce l’hanno fatta a rimettersi in piedi e ad andare avanti. Questa volta no.
I messaggi che mi inviano sono tutti tendenti al pessimismo. Del resto, come si fa a essere ottimisti dopo quello che è accaduto. Il coronavirus ha imposto un blocco delle attività di quasi tre mesi, un quarto di anno in cui si è dovuta spegnere la vita, interrompere il lavoro, rinunciare al fatturato. In termini economici non si tratta del 25% di mancate entrate, ma molto di più, perché chi opera nel campo della moda, da esercente o da produttore, si è visto portare via due stagioni. Chi lavora nel turismo o nella ristorazione ha perso tutti i «ponti» della primavera, da Pasqua al Primo maggio, e a causa delle misure di distanziamento sociale, anche l’estate rischia di essere drasticamente ridimensionata.
No, a leggere le email di chi sta in prima linea nella trincea dell’economia, si capisce che non butta bene e che di questo passo, dopo che in ospedale è stata decimata una generazione, c’è un pericolo concreto che parte del ceto produttivo sia sterminata in pochi mesi. Qualcuno già parla di autunno caldo, immaginando una stagione simile a quella vissuta cinquant’anni fa, quando dopo il boom economico l’Italia si trovò a fare i conti con un periodo di scioperi e di tensioni.
Ma erano altri tempi, dove ancora esistevano quelli che i sociologi chiamano «corpi intermedi», ossia organismi di rappresentanza, cioè sindacati e associazioni che in qualche modo difendevano gli interessi degli scontenti. In una certa misura incanalavano la rabbia e la indirizzavano, trattando con la politica per trovare soluzioni che rispondessero ai bisogni. Oggi però i corpi intermedi non esistono più. Le grandi confederazioni non rappresentano gli interessi della classe lavoratrice, ma quelli di chi non lavora, ovvero i burocrati delle stesse organizzazioni, una classe di privilegiati che vive accampando diritti, mai doveri e men che meno responsabilità.
Non diversa è la situazione dei «sindacati» degli imprenditori, che chiusi nei loro «viali dell’Astronomia», sembrano vivere sulla Luna e non in una fabbrica o in un’azienda, e per contiguità alla politica digeriscono tutto, anche le norme più astruse. Se da un lato non c’è la Cgil a impersonare le esigenze di chi non ha lavoro né reddito, dall’altra non ci sono né Confindustria né associazioni di commercianti che abbiano una capacità di condizionare le scelte economiche.
In aggiunta, c’è poi una classe di governanti tra le più scadenti che si siano affacciate sulla scena, incapace di tradurre i bisogni del Paese in scelte e decisioni concrete. In un recente sondaggio è stato chiesto agli italiani se per aiutare l’agricoltura fosse giusto regolarizzare i clandestini e il 26,3% ha risposto sì, mentre il 64,7 ha sostenuto che sarebbe stato meglio mandare nei campi chi percepisce il reddito di cittadinanza, ma la sanatoria si è fatta lo stesso.
Un altro sondaggio ha misurato le esigenze in materia economica e alla domanda di cosa gli intervistati ritenessero più utile, il 32,2% ha messo in cima alla lista i contributi a fondo perduto per le aziende, il 24 il pagamento immediato della cassa integrazione e il 19,7 gli incentivi fiscali e tuttavia dal governo non è arrivato niente di tutto ciò, ma un invito a rivolgersi alle banche per ottenere una linea di credito garantita dallo Stato. C’è da stupirsi poi se gli indici di fiducia nel futuro sono ai minimi storici e il 55,6 degli italiani pensa che ci vorrà almeno un anno per ritornare a una vita normale?
No, non c’è da essere sorpresi. Così come non c’è ragione di sgranare gli occhi di fronte alla rabbia che sta montando fra gli italiani. L’altro giorno ho assistito a un carosello di tassisti per le vie di Milano. Protestavano per la nuova viabilità, che in città ha ristretto le vie per far spazio a piste ciclabili: nel momento in cui ci sono meno clienti e più costi per sanificare le auto, il Comune ha deciso di restringere le strade per scoraggiare la circolazione. Meno corsie, meno corse e dunque meno soldi, ma più rabbia anche per i tassisti.
Sì, sarà un autunno caldo, ma non come quello di mezzo secolo fa, perché sarà un autunno di rabbia e delusione, senza che nessuno sappia dare una risposta concreta. Non ci saranno rivolte o rivoluzioni, perché il ceto medio, che si tratti di un professionista o di un tassista, non organizza moti sediziosi. Ma sarà una rabbia profonda che rischia di sfociare in una depressione. La peggiore malattia per qualsiasi economia. E se non si vuole che ciò accada, c’è una sola cura: avere al governo chi non chiude le strade e apre alle sanatorie, persone che sappiano che cosa sia un’azienda e che magari in qualcuna di queste, oppure in un negozio, abbiano lavorato.
