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L’abito giusto fa davvero il monaco

L’abito giusto fa davvero il monaco

Basta ciabattoni e bermuda alla Scala, ma anche stop ai parlamentari Ue in maglietta. Ogni luogo va rispettato con il dress code che richiede.

Ricordo che anni fa, quando ero un giovane cronista al Giornale, in un’estate calda come questa, un collega, mio coetaneo, si presentò in redazione con bermuda e maglietta stile balneare. I nostri capi di allora lo rimandarono a casa a cambiarsi. La scena si è ripetuta qualche settimana fa, prima dell’ultima puntata della stagione di Fuori dal Coro: un giovane collega si è presentato in redazione con il medesimo look. Però io (il suo capo) non l’ho rimandato a casa. L’ho rimbrottato, gli ho ricordato il precedente del Giornale, ma non ho avuto cuore di fargli cambiare abbigliamento. Ho commesso un errore: l’allora giovane collega infatti imparò, anche da quella lezione, a rispettare il luogo di lavoro e anche per questo è diventato un professionista serio e stimato. Il giovane collega di Fuori dal Coro, invece, forse non lo diventerà mai.

Lo chiamano dress code, codice di abbigliamento, e forse bisognerebbe che imparassimo tutti a rispettarlo di più. Ha fatto clamore, nei giorni scorsi, la notizia del suo ripristino alla Scala di Milano: niente più ciabatte e canotte per entrare nel tempio della lirica. E a leggere gli articoli di giornale stupiti la prima domanda che mi sono fatto è: ma davvero finora si poteva entrare alla Scala in ciabatte e canotta? Ebbene sì: per «attirare giovani» (così avevano detto) erano state aperte le porte anche a spettatori in short e Birkenstock. Lo aveva deciso l’ex sovrintendente Dominique Meyer. Anche se poi si è scoperto che, più che i giovani, ad approfittare delle maglie larghe sono stati i turisti stranieri, quelli del tour sul bus scoperto, Duomo, Galleria e concerto alla Scala, all inclusive. Ora, con il nuovo sovrintendente, il contrordine: si ricorda a chi entra in teatro, che la Scala non è la spiaggia di Coccia di morto e nemmeno il Papeete Beach Club. Niente ciabatte, niente canottiere. Cari turisti, fatevene una ragione. Bisogna cambiare abbigliamento per assistere a un’opera lirica (oltre che, ricordatevelo, anche per entrare in Duomo…).

Il grillo parlante che tiene questa rubrica, si sa, è tutt’altro che un maestro di stile. Con l’eleganza ho lo stesso rapporto che normalmente ho con l’astrofisica nucleare: reciproca diffidenza. Più volte sono stato rimproverato per essere in onda con la cravatta storta, la giacca aperta, la camicia che si arruffa. Non sono un figurino. Non amo fare il pinguino. Le poche volte nella mia vita che ho indossato uno smoking mi sono sentito a disagio come un orso bruno in una boutique di via Montenapoleone. Però fin da piccolo ho imparato i principi cardine del rispetto. E trovo pertanto assai spiacevole che, per esempio, un’europarlamentare si presenti al seggio con una mise da ombrellone (vero Ilaria Salis?). O che un eurodeputato si presenti alla prima riunione del parlamento di Strasburgo con una magliettina da spiaggia al posto della tradizionale camicia (vero Mimmo Lucano?). Perché significa mancare di rispetto alle istituzioni. E, di conseguenza, ai cittadini.

La stagione del Covid, la mescolanza tra smart work e lavoro in presenza, la progressiva abolizione dell’obbligo di cravatta in ufficio, hanno molto diminuito i codici d’abbigliamento, un tempo rigidissimi. Si racconta di grandi aziende dove agli aspiranti neoassunti veniva chiesto di togliere la giacca durante il colloquio: se accettavano, venivano respinti perché «durante un colloquio la giacca non si toglie nemmeno se l’altra persona te lo permette». E si racconta di altre grandi aziende dove i dirigenti venivano mandati a casa perché sotto il vestito grigio d’ordinanza avevano scarpe marroni, anziché nere come di prassi. Esagerazioni? Forse. Ma è possibile che oggi si vada in ufficio in bermuda e canottiera, come il mio giovane inviato, senza che nessuno ti rispedisca a casa? Per altro sono convinto che il medesimo giovane inviato se anziché in redazione fosse andato in discoteca al dress code sarebbe stato molto attento, altrimenti non l’avrebbero fatto entrare…

E allora perché il dress code, che vale in discoteca, non deve valere in ufficio? O in chiesa, dove ormai tutti entrano con spalle scoperte e infradito? Per altro il dress code il più delle volte porta benefici non solo al luogo (che viene rispettato), ma anche alla persona (che lo rispetta). Avete presente gli improbabili completini Nike indossati da Jannik Sinner a Roma e Parigi? Bene: non è stato meglio vederlo total white, come impone il dress code a Wimbledon? Credetemi: seguire alcune regole nell’abbigliamento giova a tutti. A tal punto che mi domando: perché solo nell’abbigliamento? Perché non imporre qualche divieto in più sui tatuaggi? Ma li avete visti come si presentano nelle nostre case certi cantanti o certi calciatori? Non ci dovrebbe essere un limite? Non è forse una violenza verso sé stessi, ma anche verso gli altri, deturparsi il corpo con simili orrori? Vorrei chiederlo al mio giovane inviato che oltre alle braghette corte mostrava anche troppi tatuaggi. Ma temo che non lavorerà più per me.

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