Chiara Caselli, attrice ispirata, ha anche una seconda anima creativa. E stavolta con il suo obiettivo ci conduce attraverso una mostra di «stanze» interiori. Tra visioni e inquietudini, lontananze e nostalgie.
L’ultima immagine che ho di lei è di mia sorella nel film di Pupi Avati sulla mia famiglia, Lei mi parla ancora. È perfetta nei tratti e nei ritmi. Chiara Caselli è un’attrice dal volto di ragazza, concentrata in sé stessa, desiderosa di far sentire il suo teso pensiero. E, per questo, desiderosa di esprimersi oltre che con il volto e il corpo, con l’anima, ha cominciato a raccontare attraverso la fotografia.
Ha fotografato l’infinito nel cielo e nel mare, parlando di sé con purezza, con ostinazione. Ritorna ora con le immagini sofisticate di un racconto fatto di assenza. Una sedia, in una stanza vuota, contro un muro grigio. Se i suoi mari e cieli rimandavano alla pittura di Piero Guccione, questo interno desolato, con il muro grigio, evoca gli studi e le stanze di Gianfranco Ferroni.
Quella sedia parla, è stata testimone di gesti, di vita, indica la presenza di una persona. Sempre Chiara, nei suoi lunghi pomeriggi di meditazione. Sulla sedia una tunichetta bianca, una coroncina di fiori, a terra una mela. Altrove, poco lontano, c’è lei. Sua quella tunica, sua quella corona, sua quella mela.
Noi sentiamo il suo pensiero, la sua solitudine, la sua attesa. La fotografia parla. I tre tempi della sedia sono l’indolente lentezza di una giornata. L’attesa è una condizione psicologica. È quella di cui parla il poeta Vincenzo Cardarelli nella sua omonima poesia del 1948: «Oggi che t’aspettavo / non sei venuta. / E la tua assenza so quel che mi dice, / la tua assenza che tumultuava / nel vuoto che hai lasciato, /come una stella. / Dice che non vuoi amarmi. / Quale un estivo temporale / s’annuncia e poi s’allontana, / così ti sei negata alla mia sete. / L’amore, sul nascere, /ha di questi improvvisi pentimenti. / Silenziosamente / ci siamo intesi. / Amore, amore, come sempre, / vorrei coprirti di fiori e d’insulti».
Anche nelle immagini di Chiara c’è l’idea della solitudine, dell’attesa di qualcuno che non verrà. Qualcosa è accaduto. Qualcosa accadrà. Il racconto di piccoli movimenti interiori ed esteriori culmina con la tunica appesa al muro, con la corona in alto. Chiara è altrove. Nella stanza si agita il suo fantasma.
Il suo sguardo si sposta. Entra in un bosco, davanti alla natura, con i colori più tenui, a pastello. L’immagine è molto suggestiva. Sentiamo l’aria tra le foglie, in una fusione di verde e di azzurro. Ma c’è qualcosa di più del verde. C’è lo spazio della memoria, il tempo fermo. L’occhio di Chiara si muove nella casa di Livia come a Pompei nella «Casa degli Amanti», nella «Casa del Frutteto», nella «Casa di Venere». Livia, moglie dell’imperatore Cesare Augusto, fece dipingere nella sua villa lungo la via Flaminia un giardino eterno che ornava le pareti del triclinio, la sala da pranzo della residenza. Un viridarium realizzato a encausto tra il 30 e il 20 a.C. che trasmette immutato il senso della frescura e del benessere, un rigoglio semprevedere. Lungo le pareti si osservano alberi carichi di frutta, cespugli in fiore, uccelli che volano fra i rami mentre altri cinguettano sulle fronde (fra di essi colombe, cardellini, passeri, merli, rondini, usignoli, pernici…).
Agli alberi in prima fila (pino, quercia, abete rosso) resi nei loro dettagli, seguono altri che, più arretrati, sfumano sullo sfondo fino a divenire indistinti (per primi il melo cotogno e il melograno, poi mirti, palme da dattero, oleandri, lecci, cipressi, bossi…). In alto il cielo è contenuto da una caverna, di cui si notano i resti di stalattiti di roccia. In basso il prato – punteggiato da cespugli (di acanto, edera, felci…), da fiori (rose, papaveri, crisantemi, iris…), uccelli in riposo, una gabbietta – è definito da una doppia recinzione, una staccionata di canne con aperture in primo piano e, dietro, una balaustra in marmo.
Qui entra Chiara, qui si muove e vede, e sente il vento muovere le foglie. E le ferma nella sua immagine. Sentendo un vento diverso, un vento interiore, un vento dell’anima. All’attenzione naturalistica nella resa della flora e della fauna – talmente accurata da consentire l’indagine botanica ed ornitologica (sono state riconosciute 24 specie vegetali e 69 uccelli) – si accompagna nel viridarium il senso di fresco e riparo che la decorazione voleva suscitare, con la predominanza dei toni verde e azzurro e la sensazione del vento che agita le foglie: un senso di benessere che senz’altro accompagnava il fresco offerto da questo ambiente interrato, mentre nella campagna circostante bruciava l’estate.
Nell’età tardo-repubblicana e augustea il tema del giardino assunse un significato simbolico: la floridezza della natura e il suo essere sempre verde erano allusioni alla felicitas tempororum portata dalla Pax Augustea. Anche dal punto di vista etimologico – ricorda Michel Pastoureau nel suo Verde. Storia di un colore – il termine viridis si ricollegava a una ricca famiglia di vocaboli evocanti «il vigore, la crescita, la vita». Altri giardini, forse letterari, in quanto gli scavi non hanno confermato le notizie, sono quelli che nel 1841 visita Alexandre Dumas nella «Casa del Fauno»: «Alle spalle è un giardino che doveva aver tutto disseminato di fiori; in mezzo a quei fiori sgorgava una fontana che ricadeva in un bacino di marmo. Intorno si sviluppava un portico sostenuto da 24 colonne di ordine ionico, oltre le quali si scorgevano ancora altre colonne e un secondo giardino, piantato a platani e lauri, alla cui ombra sorgevano due tempietti consacrati agli dei lari».
Come Dumas, la fotografia ci inganna. Chiara si immerge in una natura reale che è fuga, paradiso terrestre, Eden. Anche qui il suo corpo è altrove. Non siamo davanti a immagini d’arte, a un documentario su Pompei. Siamo in uno spazio del desiderio, in un luogo che appartiene a Chiara, il suo hortus conclusus, in cui noi siamo ammessi per sapere qualcosa della sua anima, della sua delicatezza, del suo desiderio di fuga. Una fuga oltre il tempo dove non è possibile raggiungerla, dove può essere protetta e riparata. Alla sua visione non ci sono confini, non margini, quel paesaggio è il paesaggio della sua anima. Nella terza fase, dopo il vuoto della casa e dopo il paesaggio di nessuno, appare il corpo, il corpo nudo, mosso, sfocato, sensuale come nei dipinti di Guido Cagnacci e di Artemisia Gentileschi. Pure il nudo per Chiara è incorporeo, è un nudo psicologico, in dissolvenza.
Il corpo trema, si agita, si mostra in estasi come l’ultima Maddalena di Caravaggio. Poi il nudo sparisce, e resta un notturno, una solitaria passeggiata sotto la luna per ritrovare nella natura le tracce di quell’estasi, riviverne le emozioni. Dell’estasi resta traccia nella natura; ma ancor più un velo bianco sospeso sull’acqua a parlare di chi non c’è. Anche qui ritorna una memoria colta, il richiamo alla Ophelia di John Everett Millais. La ghirlanda di violette che cinge il collo di Ofelia fa riferimento all’atto IV, scena V di Amleto: «E le violette ti vorrei dare, ma appassiron tutte quando morì mio padre. M’hanno detto che ha fatto buona fine…». La violetta, oltre a simboleggiare la fedeltà, è anche un’allusione alla castità e alla precoce morte della fanciulla.
Soltanto il velo resta sospeso sull’acqua, e come il corpo era assente nella prima stanza, così si dissolve in questa immersione. Chiara è qui.
