Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Ne sanno qualche cosa a Repubblica, dove in prima pagina è comparso il commento puntuto della vicedirettrice Annalisa Cuzzocrea sul caso del giorno, ovvero le dichiarazioni di Giorgia Meloni sui referendum dell’8 e 9 giugno. Il presidente del Consiglio ha spiegato che domenica prossima si recherà al seggio, ma non ritirerà la scheda. Un modo per dire che non parteciperà alla presa in giro degli elettori organizzata dalla sinistra per abrogare le norme che il Pd varò dieci anni fa, ma che ora – per convenienza – sono usate a fini politici.
La scelta del premier è assolutamente legittima, anche perché in passato altri capi di governo (Craxi e Renzi) e presidenti della Repubblica (Napolitano), ma pure tanti ministri (Mattarella e Bossi) hanno legittimato la scelta di non votare, in qualche caso addirittura facendo appelli per disertare i seggi. Però, siccome in questo caso Schlein e Landini hanno iniziato una campagna elettorale che serve a preparare il clima per il voto delle regionali e per le amministrative della prossima primavera, rinunciare a votare equivale a sabotare la loro strategia. E dunque Repubblica non ha solo dedicato il titolo di prima pagina alla decisione di Giorgia Meloni («Meloni: vado ma non voto, è scontro sul referendum»), ma ha pure aggiunto l’editoriale della vicedirettrice: «Una furbizia poco onorevole». Secondo Cuzzocrea «non è un bello spettacolo vedere il governo infastidito dalla democrazia». Non votare, infatti, sarebbe una scelta contraria alla libera espressione degli elettori su quesiti importanti come quelli sottoposti da Landini e Schlein, sul lavoro e la cittadinanza agli immigrati.
La contraddizione
Peccato che a demolire le argomentazioni del numero due di Repubblica ci abbia pensato la stessa Repubblica, che sul sito del quotidiano di casa Agnelli, in occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della testata fondata da Eugenio Scalfari, ha ripubblicato un articolo di Stefano Rodotà apparso sulle pagine del giornale 35 anni fa. Già il titolo è significativo («Il paradosso del referendum»), ma l’incipit del pezzo è fulminante. L’editoriale venne scritto a commento del flop dei quesiti proposti dagli ambientalisti sulla caccia. «Che cosa sta succedendo? Davvero mi sembra che il criterio guida per la nostra classe politica stia diventando la metafora (o l’illusione) della eliminazione della febbre attraverso la rottura del termometro. Appena si verifica qualcosa che non quadra con pigre previsioni o speranze avventate, ecco l’invocazione di modifiche costituzionali, di cambiamenti radicali delle regole. È avvenuto anche in occasione degli ultimi referendum dopo che, per la prima volta, è mancata la maggioranza per renderli validi. Invece di riflettere seriamente sul perché di questa vicenda, tutt’altro che imprevedibile, è cominciata la corsa a chi le sparava più grosse sulle modifiche del referendum».
All’epoca, i verdi e la sinistra si erano scagliati contro chi aveva scelto di non votare e, invece di riconoscere di essere minoranza nel Paese, avrebbero voluto cambiare le regole, affinché anche senza il raggiungimento del quorum fosse possibile abrogare le leggi sgradite. Di fatto, sollecitavano una dittatura della minoranza contro il parere della maggioranza. Rodotà allora spiegò che non c’era affatto da stupirsi se il plebiscito non aveva spinto gli italiani a votare: «Siamo di fronte a un’eventualità che la Costituzione ha previsto, a una modalità di comportamento dei cittadini che potrà non piacere, ma sta tutta nelle regole del gioco». Il futuro presidente del Pds, nel suo commento usò parole di fuoco nei confronti di chi, dopo aver perso, se la prendeva con il meccanismo costituzionale, accusando i promotori del plebiscito di mediocrità, rozzezza nelle analisi, incapacità di previsione. Se hanno perso, era il senso del discorso, non è certo per il mal funzionamento dell’istituto referendario, ma per la loro assenza di fiuto politico.
Referendum sulla leadership
Pensandoci, è ciò che sta accadendo in questi giorni. Temendo che l’8 e il 9 giugno non si raggiunga il quorum e dunque la consultazione non sia valida, la sinistra spara contro chi sceglie di non votare o di dire, come ha fatto Meloni, che non ritirerà la scheda. Scelta legittima, assolutamente consentita: altro che insulto alla democrazia o sgarbo alle intenzioni degli italiani. Semmai, a ignorare le regole del gioco, per dirla con Rodotà, sono i compagni. I quali forse temono che un voto negativo dimostri la loro «mediocrità, rozzezza e incapacità di previsione».
Ma l’aspetto più incredibile della polemica è che una parte del Pd (ovvero Lorenzo Guerini, Marianna Madia, Lia Quartapelle, Pina Picierno) è sulla stessa linea del presidente del Consiglio, cioè non ritirerà la scheda. Dunque, ciò che se fatto da un esponente del centrodestra è un’offesa alla democrazia, se lo fa un parlamentare della sinistra è una scelta democratica. La verità è che il referendum non è sulle norme che regolano il lavoro e la cittadinanza, ma sulla leadership del Partito democratico. Per capire se Schlein è maggioranza nel Pd oppure no.