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Letta: il ritorno del guastatore

Letta: il ritorno del guastatore

L’editoriale del direttore

il sospetto è che il segretario del Pd abbia messo gli occhi su Palazzo Chigi dopo Mario Draghi. O, meglio ancora, sul Quirinale dopo Sergio Mattarella.


Ma che cosa è tornato a fare Enrico Letta? In principio avevo pensato che fosse mosso da spirito di rivalsa, per essere stato cacciato in malo modo non solo da Matteo Renzi, ma dalle stesse correnti del partito, che si erano messe d’accordo con l’allora sindaco di Firenze, vendendo la pelle del presidente del Consiglio in cambio di uno strapuntino. Però, più passano i giorni e più comincio a dubitare che il tenero Enrichetto sia tornato da Parigi solo per prendersi la rivincita sui nemici, anche perché la sua non sarebbe un’operazione a costo zero.

Accettando di sostituire Nicola Zingaretti, Letta ha dovuto rinunciare a un bel po’ di cose, a cominciare da uno stipendio assicurato. Da direttore della scuola internazionale di Sciences Po, ossia dell’istituto parigino di studi politici, incarico assunto subito dopo l’esilio politico, l’ex premier aveva assicurata una casa nella capitale francese, oltre a un certo numero di incarichi di prestigio, prima in alcuni consigli di amministrazione (tra i quali Abertis), poi in comitati tipo quello voluto da Emmanuel Macron per il rilancio della Francia. Possibile che per pura ambizione, Letta abbia gettato alle ortiche sei anni di lavoro, trasformandosi in un disoccupato?

Certo, il nuovo segretario del Pd non rischia l’indigenza e presto si troverà un rimedio alla situazione, magari candidandolo nel collegio di Siena che Pier Carlo Padoan ha lasciato libero. Ma al momento, l’ex premier è da considerarsi un precario: di lusso, ma pur sempre precario. Non so se ai suoi bisogni primari provveda il partito, che quanto a soldi, dopo la cura «renzista» è messo male, o se a pagare sia di tasca sua lo stesso Letta, ma il sacrificio di salutare l’insegnamento e dire addio a periodi di studio in America e Australia deve avere una giustificazione che va oltre la voglia di riabilitazione.

Torno dunque alla domanda iniziale: che cosa è tornato a fare? Si può credere che sia rientrato per mettere in riga Goffredo Bettini e qualche ex renziano tipo Lorenzo Guerini? Davvero non aveva di meglio da fare che trasformarsi in paciere tra Matteo Orfini e Dario Franceschini? No, è difficile pensare che a muoverlo sia stata la voglia di annaffiare l’appassito rametto d’ulivo che appare sotto il simbolo del Pd. Né ci si può bere la storia di un Letta animato dal desiderio di coltivare le quote rosa, rimediando agli errori di Nicola Zingaretti in tema di nomine: il nipotissimo che è tenerissimo non appartiene all’arciconfraternita di Sant’Antonio da Padova, nota per i premi alla bontà.

Dunque, che sta a fare a Largo del Nazareno? Fin da subito, avevo immaginato che in vista di vari ribaltoni volesse anche lui conquistare la sua fetta di torta, ossia un incarico di prestigio, che certo non può essere limitato a guidare una banda di scappati di casa come i colonnelli del partito. No, il sospetto è che Letta abbia messo gli occhi sulla presidenza del Consiglio dopo Mario Draghi o, meglio ancora, la presidenza della Repubblica dopo Sergio Mattarella.

In effetti, l’opera di corteggiamento dei 5 Stelle da questo punto di vista potrebbe avere un senso. Per conquistare Palazzo Chigi o il Quirinale fra un anno, il segretario del Pd non ha bisogno solo dei suoi voti, ma anche di quelli di altri partiti. Dunque, bisogna costruire un ampio consenso per prepararsi all’appuntamento. Sarà per questo che Enrico il tiepido ha voluto incontrare Giorgia Meloni? Possibile, anche se non penso proprio che la leader di Fratelli d’Italia abbia intenzione di trescare con la parte avversa.

Una cosa però mi pare certa ed è che se da un lato Letta prova a fare ciò che la sinistra ha sempre fatto, cioè scegliersi la destra che preferisce per il proprio tornaconto, dall’altro il segretario del Pd ha messo nel mirino Matteo Salvini, nella segreta speranza di farlo uscire dalla maggioranza. Senza la Lega, Letta potrebbe intestarsi Mario Draghi, facendo un piacere non solo a Macron e alla compagnia europea che detesta il capitano leghista, ma anche a coloro che preferiscono che l’ex governatore della Bce sia un po’ meno autonomo e un po’ più condizionabile.

Oggi il premier può contare su numeri larghi, eliminato il Carroccio la maggioranza sarebbe un po’ più risicata e l’intero governo penderebbe a sinistra. Dunque, vai con lo ius soli, con la legge Zan contro l’omofobia, con uscite tipo quella nei giorni scorsi sul salvataggio in mare dei migranti, tutti argomenti che solo a nominarli fanno venire l’allergia a Salvini. Quello di «sotti-Letta», come lo ha ribattezzato Dagospia, non è solo un modo per strizzare l’occhio a sinistra, ai bersaniani, a Maurizio Landini e compagnia bella. È un’operazione che punta a scardinare degli equilibri composti con fatica. Detto in poche parole, a guardarsi le spalle non dev’essere solo il capo della Lega, ma anche quello del governo, il primo che si troverebbe a fare i conti con un esecutivo de-salvinizzato.

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