L’ultimo a entrare in Vaticano è stato l’ex presidente del Brasile Lula da Silva, sul quale pendono tuttora svariati
processi. Ma gli esponenti politici del continente che, nonostante la fama discutibile, hanno incontrato Francesco
è lungo: Nicolás Maduro, Evo Morales, Cristina Fernández de Kirchner per citare i più noti. Eppure il Pontefice non pare preoccuparsi.
«La ringrazio molto per essere venuto e sono contento di poterla vedere camminare per strada, libero». Le parole con cui Papa Francesco ha accolto l’ex presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, il 13 febbraio scorso in Vaticano, sono più di una benedizione a un ex detenuto già condannato in tre istanze di giudizio per corruzione e riciclaggio e alle prese con altri otto processi.
La soddisfazione di Bergoglio abbracciando chi ha protetto per anni il latitante Cesare Battisti rappresenta una scelta di campo politica precisa del Pontefice. L’incontro con Lula è durato un’ora, quattro volte tanto rispetto al tempo che riserva il protocollo della Santa Sede ai capi di Stato in carica. È stato interdetto ai giornalisti e su di esso ha sorvolato la sala stampa vaticana, che non ha neppure diramato un comunicato. Il sintomo delle tensioni che la visita ha creato nei sacri palazzi.
Di certo c’è che le frequentazioni «spericolate» di Papa Francesco non si limitano a Lula ma vanno oltre, soprattutto in America latina dove più forte si avverte il rischio di uno scisma tra la Chiesa di Bergoglio e chi, pur essendo cattolico, non ne appoggia le scelte a favore di chi viola costantemente i diritti umani e saccheggia le casse statali.
Il Venezuela è il caso più eclatante. Pur essendo il Segretario di Stato Pietro Parolin un profondo conoscitore della dittatura chavista e nonostante gli appelli, chiari e disperati della Cev, la Conferenza episcopale venezuelana, mai Bergoglio ha espresso una condanna alle azioni criminali del regime, nonostante queste, quotidianamente, causino l’esodo di 5.000 affamati e la morte di decine di malati per mancanza di medicine.
Quando nel 2016 Papa Francesco ricevette col sorriso il dittatore Nicolás Maduro, si rifiutò di ricevere Lilian Tintori e Mitzy Capriles – mogli dei prigionieri politici Leopoldo López e Antonio Ledezma – che per giorni si incatenarono di fronte alla Basilica di San Pietro. Sordo ai loro appelli, Bergoglio intervenne sul Venezuela solo per criticare l’opposizione, facendo intendere che il problema del Paese sudamericano era «l’opposizione divisa».
Che dire poi del politico che Francesco ha incontrato più volte al mondo, ovvero l’ex presidente della Bolivia Evo Morales? Già accusato di terrorismo e sedizione per avere incitato un alleato narcos a «prendere per fame e sete» le principali città del suo Paese, oggi si è rifugiato in Argentina protetto dalla vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner, tornata al potere nonostante sei richieste d’arresto per corruzione, favoreggiamento al terrorismo e associazione a delinquere.
Molti ricordano il sorriso un po’ impacciato di Bergoglio quando, in visita in Bolivia nel 2015, ricevette da Evo Morales un crocifisso a forma di falce e martello, simbolo di quel comunismo che ha fatto milioni di morti e che, soprattutto, non ha mai dato se non fame e miseria alle popolazioni che ne hanno «goduto». Più significativo e meno noto, tuttavia, l’arresto nel giugno 2018 in Vaticano di un gruppo di donne boliviane vestite con i classici ponchos con sopra la scritta «21-F Bolivia dijo No», ovvero 21 di febbraio. Un riferimento al referendum che nel 2016 Evo aveva perso, ma che aveva poi ignorato con una serie di atti dittatoriali.
Il no popolare è stato «sanato» l’autunno scorso dalla ribellione del popolo boliviano che, dopo la frode delle ultime presidenziali, ha costretto alla fuga il presidente più incontrato dal Papa, per evitare di fare i conti con la giustizia del suo Paese che ne ha addirittura chiesto l’arresto (per terrorismo) all’Interpol. L’ambasciatore boliviano presso la Santa Sede aveva chiarito di non essere stato lui a chiedere l’arresto delle donne che rivendicavano il rispetto del referendum e, secondo testimoni contattati da Panorama e confermati dal quotidiano boliviano El Deber, a compiere il fermo fu la stessa Gendarmeria vaticana.
Altra tirannia che si è avvantaggiata dalle scelte politiche di Bergoglio è quella del Nicaragua, di Daniel Ortega e di sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo. Come? Richiamando a Roma d’urgenza il vescovo ausiliare vicario generale dell’arcidiocesi di Managua, Monsignor Silvio José Báez. «Non ho chiesto di lasciare, sono stato chiamato dal Santo Padre», disse all’epoca in una toccante conferenza stampa la voce della resistenza della Chiesa cattolica contro la dittatura di Ortega. «Questa decisione che lascio il Nicaragua è una responsabilità del Santo Padre», aggiunse Báez con le lacrime agli occhi. «In tutta sincerità, in questo momento mi sento un grande dolore nel mio cuore, il dolore di non poter essere fisicamente con il mio amato popolo nicaraguense».
Báez era la voce più critica del cattolicesimo contro la tirannia di Ortega, e dalla sua penna arrivavano le note ufficiali della Conferenza episcopale del Nicaragua che denunciavano la repressione. Nel 2018 era stato picchiato selvaggiamente da paramilitari orteguisti. Ufficialmente il Papa lo ha trasferito a Roma per proteggerlo, Ortega e la moglie lo hanno ringraziato.
Che dire poi di Rafael Correa, l’ex presidente dell’Ecuador latitante in Belgio perché accusato di avere fatto sparire dalle casse dello Stato durante la sua presidenza 7 miliardi di euro, oltre che avere intascato tangenti milionarie dalla multinazionale brasiliana Odebrecht (ai tempi di Lula) e avere perseguitato gli indigeni che si opponevano agli investimenti minerari cinesi sulla Cordigliera del Condor? Non una parola e, anzi, addirittura un invito in Vaticano per partecipare a un convegno assieme al candidato presidenziale statunitense Bernie Sanders. Silenzio assoluto su questa «corruzione senza precedenti» – così l’ha definita anche l’attuale presidente Lenin Moreno, un ex guerrigliero – da parte di Francesco.
Cuba, poi, è un capitolo a parte. «Papa Francesco commette un tremendo errore non applicando la parola di Gesù Cristo qui» analizza Javier Larrondo, presidente dell’associazione per i diritti umani Prisoners defender. «Basta vedere la vita di Gesù per sapere che lui sarebbe finito in prigione come José Ferrer o sarebbe morto come Zapata Tamayo, ma mai avrebbe negato la parola ai dissidenti mentre onorava il carnefice».
Il riferimento è all’ultima visita di Bergoglio all’Avana, quando a differenza di Wojtyla, il Santo Padre non ha fatto nessuna critica al «modello» castrista, mentre i dissidenti venivano arrestati dagli agenti del regime nel timore che anche solo uno potesse mostrare una maglietta per denunciare la dittatura più antica delle Americhe.
Quando Bergoglio si avvicendò a Ratzinger, uno dei principali obiettivi del nuovo papato era bloccare l’emorragia di fedeli in America latina. Peccato che oggi, trascorsi sette anni di nuovo corso in Vaticano, la Chiesa continui a perdere fedeli nel continente più cattolico al mondo e a un ritmo ancora più intenso rispetto a quando, sul soglio di Pietro, sedeva Benedetto XVI.
A Bergoglio l’attuale situazione in America latina ricorda «quella del 1974-1980, in Cile, Argentina, Uruguay, Brasile, Paraguay con Stroessner, e credo anche in Bolivia. C’era l’Operazione Condor (il piano degli Usa in funzione anticomunista di appoggio alle dittature che violavano i diritti umani, ndr) in quel momento» ha detto lui stesso nel dicembre scorso.
Il problema è che oggi, a differenza degli anni Settanta, le dittature latinoamericane non sono «di destra» figlie della Guerra fredda ma sono castrochaviste, come nel caso di Cuba, Venezuela e Nicaragua. E i loro amici (che Francesco riceve in Vaticano) – Morales, Fernández de Kirchner, Lula e Correa – con la scusa di un’ideologia fuori tempo hanno saccheggiato le casse statali e istituzionalizzato la corruzione.