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Il giornalismo libero non ha «bollini» come vorrebbe imporre Macron

Il giornalismo libero non ha «bollini» come vorrebbe imporre Macron

La proposta di Macron sul “bollino di qualità” riaccende il dibattito sulla libertà di stampa: tra timori di controllo politico, fact-checking discutibile e autocensure interne, chi decide davvero cosa è informazione affidabile?

Macron vuole l’informazione con il bollino. Non so se l’idea preveda una specie di Michelin della stampa, con una, due o tre penne a segnalare i giornali di qualità (nessuna per quelli ritenuti inaffidabili), ma la proposta ha già suscitato un coro di proteste. Le testate cosiddette di destra si sono sollevate contro il progetto, perché temono che sia un tentativo per imbavagliarle e delegittimare chi critica il presidente o il governo. È vero che il presidente francese si è affrettato a spiegare che “il bollino di qualità” dovrebbe essere concesso dagli stessi giornalisti e non da un’autorità terza legata all’Eliseo o all’esecutivo, ma c’è il sospetto che si voglia in qualche modo mettere sotto controllo l’informazione, imponendo una visione mainstream.

Chi decide cosa è affidabile?

In base a quali criteri si stabilisce che una testata sia più affidabile delle altre? Chi critica le imposizioni green oppure ha dubbi sulla strategia della Ue in Ucraina ha diritto al bollino oppure rischia di essere classificato fra i giornali di fake news? In pratica, chi può avere il diritto e la legittimità di distinguere i media buoni da quelli cattivi? Non si rischia di uniformare la stampa, costringendola dentro i binari del politicamente corretto? In Francia se ne discute in maniera accesa e più d’uno accusa l’Eliseo di volere “una deriva liberticida”.

E in Italia? Un controllo diverso ma pervasivo

E in Italia? Da noi non esiste un bollino di qualità, o per lo meno nessuno lo ha proposto, ma i giornalisti è come se l’avessero. Infatti, chi è iscritto all’Ordine (ente pubblico che regola la professione ma da cui non dipendono influencer e altri soggetti che fanno informazione) è tenuto al rispetto di una serie di regole deontologiche e pure a frequentare corsi di formazione, dove quasi sempre la fa da padrone il pensiero mainstream. Non solo: una serie di siti si arrogano il diritto di stabilire ciò che è vero da ciò che non lo è, svolgendo una selezione in base a criteri molto discutibili anche per alcuni social media come Meta.

Il nodo dell’immigrazione e del fact-checking

Per esempio, se qualcuno scrive che l’immigrazione ha una forte incidenza sull’aumento dei reati, chi si è autonominato fact checker bacchetta il giornalista spiegando che la maggior parte di furti e violenze è commessa da italiani, tacendo però il fatto che gli stranieri rappresentano poco più del 9 per cento della popolazione, ma i reati a loro attribuiti in certi casi sfiorano il 40 per cento.

Una categoria vigilata e spesso autocensurata

Insomma, nonostante da noi non esista un bollino presidenziale, siamo una categoria super vigilata, che ormai è costretta pure a misurare le parole, perché a proposito di stranieri, parlare di migranti o di clandestini può essere giudicato discriminatorio e infatti nei corsi di formazione patrocinati dall’Ordine insegnano l’uso di termini più neutri. Però, allo stesso tempo, la categoria cui appartengo fa grandi battaglie in nome della libertà di stampa, senza rendersi conto che i censori spesso non sono esterni, ma interni, nel senso che i primi a imbavagliarsi, nascondendo le notizie, sono gli stessi cronisti.

Il precedente del Covid

Ricordate il Covid? Non fu solo il senatore Mario Monti a invocare una specie di legge marziale che sottoponesse a controllo la stampa, ma gli stessi giornalisti rinunciarono a fare fino in fondo il loro mestiere. Mentre quelli stranieri si chiesero se fosse giusto limitare la libertà delle persone in base al numero di vaccinazioni, da noi si sostenne a testate unificate l’applicazione del Green pass perfino per lavorare, violando un diritto sancito nel primo articolo della Costituzione.

Chi certifica le notizie?

Qualcuno potrebbe ritenere che certificare le notizie sia compito dei giornalisti, i quali hanno un obbligo deontologico di verificare le fonti. Giusto, ma questa funzione è demandata a chi scrive e semmai al suo direttore, che per legge è sempre responsabile, sia civilmente che penalmente. Non può essere delegata ad altri, ovvero a gruppi di giornalisti come vorrebbe Macron: innanzi tutto perché la nostra categoria non è neutra, ma pende a sinistra, come certificò anni fa un sondaggio pubblicato da Problemi dell’informazione, rivista edita dal Mulino.

Il giudizio deve restare ai lettori

E poi diciamoci la verità: non è compito dello Stato, di un governo o di un ente pubblico come l’Ordine occuparsi di che cosa scrivono i quotidiani. Gli unici a poter giudicare la qualità di ciò che viene pubblicato sono i lettori. I quali non possono essere considerati a piacimento del legislatore, o del funzionario, scemi e bisognosi di protezione. Se sono in grado di votare, saranno anche nelle condizioni di leggere e di scegliere la testata che desiderano, senza nessun bollino di qualità.

Dal passato una lezione

Una volta la Chiesa pretendeva di mettere l’imprimatur sul frontespizio di ogni libro. E le autorità ecclesiastiche mandavano al rogo i libri non autorizzati. Vogliamo tornare a quel periodo?

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