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Sogni e realtà nelle stanze del «Gattopardo»

Sogni e realtà nelle stanze del «Gattopardo»

Palazzi, chiese e monasteri, che hanno ispirato il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, E sono stati reinterpretati o, addirittura cambiati nel successivo film di Luchino Visconti.


I luoghi del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, descritti con minuzia nel romanzo, non sono quelli del film di Luchino Visconti, così fedele alla sostanza sentimentale e ideale del libro. Ma sono il Palazzo o Villa Salina corrispondente a Villa Lampedusa a San Lorenzo Colli fuori Palermo; Donnafugata corrispondente a Palazzo Filangeri di Cutò a Santa Margherita di Belìce e agli ambienti di palazzi e conventi a Palma di Montechiaro, in provincia di Agrigento. È nella mente di Tomasi che i paesi si fondono.

Sarà lo scrittore stesso a scrivere al Barone Enrico Merlo di Tagliavia: «Donnafugata come paese è Palma, come palazzo è Santa Margherita». Per ciò che ne restava prima del terremoto, il Palazzo Filangeri di Cutò e gli ambienti conventuali di Palma potevano fornire ispirazione perfetta a Visconti il quale, però, per il Palazzo di Palermo scelse Villa Boscoreale per i prospetti esterni e, per gli interni, come tutti sanno, Palazzo Ganci di Palermo e Palazzo Chigi di Ariccia, mentre, per Donnafugata, scelse di ricostruire la facciata di un palazzo tardo barocco in prossimità della Chiesa matrice di Ciminna, sempre in provincia di Palermo.

Questa assoluta indifferenza per la identità dei luoghi consente la reinvenzione di ambienti perfetti rispetto alle descrizioni di Tomasi di Lampedusa, e crea un effetto di straniamento e insieme di integrazione, limitando l’elaborazione della fantasia nel lettore. Diversamente da quanto lamentava Giorgio Bassani per la trasposizione de Il giardino dei Finzi- Contini nel film di Vittorio De Sica, gli ambienti, le atmosfere, i personaggi del Gattopardo sono trasferiti nella visione e nella rappresentazione di Visconti con una felicità tale che non solo non avvertiamo le variazioni e le infedeltà, ma integriamo le descrizioni e i personaggi di Tomasi con quelli di Visconti.

C’è insomma una sovrapposizione tra lo scrittore e il regista, una così forte integrazione che, dopo il film, non possiamo leggere il Gattopardo senza far coincidere il salone del ballo con quello di Palazzo Ganci e i protagonisti inventati da Tomasi negli interpreti cinematografici di attori come Burt Lancaster (Don Fabrizio Salina), Tancredi (Alain Delon), Angelica (Claudia Cardinale). Sono quelli, perfettamente. Insomma, il film integra il romanzo, ne costituisce un prolungamento e una trasposizione impeccabile. Sono certo che Tomasi di Lampedusa sarebbe stato compiaciuto della trasposizione cinematografica di Luchino Visconti. In ogni caso, per noi è un condizionamento psicologico inevitabile: il film è la derivazione diretta ed esclusiva del romanzo. Me ne sono accorto tornando nei luoghi che sono altri nel film di Visconti, ma sono perfettamente restituiti nei luoghi scelti in sostituzione.

Il destino ha poi voluto che la Donnafugata reale, il Palazzo Filangieri Cutò di Santa Margherita Belice fosse inghiottito e cancellato dal terremoto, rendendo ancora più reale la ricostruzione scenografica di Ciminna e che il salone da ballo di Palazzo Ganci, con la sua imponenza, prendesse il posto di quello descritto da Tomasi. Il punto più alto della illustrazione verbale di luoghi e spirito dei luoghi da parte di Tomasi è certamente il convento delle Benedettine di Palma di Montechiaro, la cui origine edestino sono strettamente legati alla famiglia dello scrittore. E, a visitarlo oggi, si ritrova ancora tutto quello che Tomasi descrive, e ciò rende quasi non necessario vederlo. Perché, dall’ultima ricognizione del Principe, attribuita a Don Fabrizio Salina ma in realtà compiuta da Tomasi di Lampedusa, successivi adeguamenti e restauri, tra gli anni Sessanta e Ottanta, hanno sconvolto quegli spazi, soprattutto le celle monastiche, una soltanto delle quali è stata conservata, a denunciare lo sfacelo, la sostituzione di pietre delle scale, pavimenti, luci, lampade, fino a un coro ligneo nella zona riservata alla clausura, realizzato nel luglio 1989 da un artigiano compiaciuto: Nicolò Amico. Spariti i mobili, gli infissi, le maniglie, restano suppellettili e arredi degli anni Sessanta/Settata, bagni con piastrelle e moderni sanitari al posto delle tazze o vasi di smalto, porte, finestre e specchiere della toilette, di materiali e disegno moderni, piastrelle di graniglia al posto di ceramiche colorate.

L’accesso meno contingentato di visitatori nella clausura consente questi rilievi, dai quali si salva la Chiesa conventuale, dalla claustrale severità. Nella loro integrità quegli ambienti sono perduti. Ma la parola di Tomasi è così intensa da restituirceli intatti. «Abitudini secolari esigevano che il giorno seguente all’arrivo [a Palma di Montechiaro ] la famiglia Salina andasse al monastero di Santo Spirito a pregare sulla tomba della beata Corbèra, antenata del Principe, che aveva fondato il convento, lo aveva dotato, santamente vi era vissuta e santamente vi era morta. Il monastero era soggetto a una rigida regola di clausura e l’ingresso ne era sbarrato agli uomini. Appunto per questo Don Fabrizio era particolarmente lieto di visitarlo, perché per lui, discendente diretto della fondatrice, l’esclusione non vigeva e di questo suo privilegio che divideva soltanto col Re di Napoli, era geloso e infantilmente fiero. Questa facoltà di canonica prepotenza era la causa principale ma non l’unica della sua predilezione per Santo Spirito. In quel luogo tutto gli piaceva, cominciando dall’umiltà del parlatorio rozzo con la sua volta a botte centrata dal Gattopardo, con le duplici grate per le conversazioni, con la piccola ruota di legno per fare entrare e uscire i messaggi, con la porta ben squadrata che il Re e lui, soli maschi nel mondo, potevano lecitamente varcare.

Gli piaceva l’aspetto delle suore con la loro larga bavetta di candidissimo lino a piegoline minute spiccante sulla rude tonaca nera; si edificava nel sentir raccontare per la ventesima volta dalla Badessa gli ingenui miracoli della Beata, nel vedere com’essa gli additasse l’angolo del giardino malinconico dove la santa monaca aveva sospeso nell’aria un grosso sasso che il Demonio, innervosito dalla di lei austerità, le aveva scagliato addosso; si stupiva sempre vedendo incorniciate sulla parete di una cella le due lettere famose e indecifrabili, quella che la Beata Corbèra aveva scritto al Diavolo per esortarlo al bene e la risposta di lui che esprimeva, pare, il rammarico di non poter obbedirle; gli piacevano i mandorlati che le monache confezionavano su ricette centenarie, gli piaceva ascoltare l’Uffizio nel coro, ed era financo contento di versare a quella comunità una parte non trascurabile del proprio reddito, così come voleva l’atto di fondazione[…]. Con fragore di chiavistelli tirati la porta si apriva. Entrò nel parlatorio afoso la frescura del chiostro insieme al parlottare delle monache schierate.

La visita riuscì a perfezione […] la tomba della Beata Corbèra fu da tutti venerata con compunzione, il caffè leggero delle monache bevuto con tolleranza e i mandorlati rosa e verdognoli sgranocchiati con soddisfazione; la Principessa ispezionò il guardaroba, Concetta parlò alle monache con la consueta ritegnosa bontà, lui, il Principe, lasciò sul tavolo del refettorio le venti “onze” che offriva ogni volta». Quei luoghi e quei riti li vediamo con i suoi occhi. Così sono e così resteranno, non profanati da ammodernamenti, apparenti comodità, che ne hanno violato lo spirito claustrale. Nondimeno una suora gentile, con la stessa bavetta di lino a piegoline minute, ci offre i dolci, gli stessi di allora. E comunque entrare in luoghi chiusi e preclusi ci restituisce una identica emozione, e la lettura del Gattopardo corregge il visto con lo scritto. E, mentre passeggiamo, sentiamo le parole che nel libro si materializzano, preservando lo spirito dei luoghi. Un altro miracolo del Gattopardo: restituire ciò che è perduto.

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