Altro che alternativa tra pace o condizionatore, come ha detto Mario Draghi. La domanda corretta è la seguente: volete la pace? Siete pronti a fare la fame?
Si fa presto a dire guerra. E si fa altrettanto in fretta a dichiarare che siamo pronti a sostenere gli ucraini contro i russi. Non ci vuole molto infatti a decidere di inviare vecchie mitragliatrici e carrarmati di era sovietica. Così come è semplicissimo chiedersi che cosa si vuole scegliere tra pace e condizionatori, tra un conflitto e un riscaldamento abbassato. Purtroppo, nonostante quello che sostiene il nostro presidente del Consiglio, spalleggiato dal segretario del Pd Enrico Letta, il quale reclama sanzioni più dure, le cose non sono così facili come vengono descritte.
Ci era stato spiegato che l’America e l’Europa, per piegare Vladimir Putin e costringerlo alla ritirata, avrebbero utilizzato l’arma atomica della finanza, escludendo la Russia dal circuito Swift, il sistema che consente le transazioni internazionali. Bloccando le riserve di Mosca custodite nelle banche centrali dei principali Paesi e impedendo agli istituti di credito di negoziare all’estero, lo zar del Cremlino sarebbe stato costretto a capitolare in fretta. In realtà, le cose non sono andate come si credeva e oggi più che mai, soprattutto dopo la denuncia delle stragi che avrebbero compiuto i soldati russi nei sobborghi di Kiev, il conflitto pare destinato ad allungarsi per mesi e forse per anni.
Per cercare di fermare Putin, la scorsa settimana la Ue ha varato il quinto pacchetto di sanzioni. Oltre a bloccare l’importazione dalla Russia di vodka e caviale, Bruxelles ha messo al bando anche il legname, le valvole e, probabilmente ad agosto, il carbone, ma Mario Draghi e Letta avrebbero voluto che tra gli acquisti vietati ci fossero anche il gas e il petrolio, che da soli rappresentano circa 300 miliardi di introiti per Mosca.
Considerando che nel 2020 l’export russo assommava a 330 miliardi di dollari e che, per effetto della guerra, i prezzi di metano e greggio sono lievitati arrivando a sfiorare anche dieci volte i valori di due anni prima, per lo meno per quanto riguarda il gas, si capisce che con gli idrocarburi Putin finanzia la guerra e vietargli di esportare vodka e caviale serve a poco. Dunque, come dice il nostro premier, bisogna scegliere tra pace e aria condizionata?
Posta così la risposta è facile. È ovvio che ognuno di noi è pronto a rinunciare all’aria fresca in cambio della fine del conflitto. Così com’è scontato che per sentir tacere le armi siamo pronti a qualche sacrificio. Se fosse sufficiente abbassare di uno o due gradi il riscaldamento o, come ha detto la commissaria Ue Margrethe Vestager, consumare meno acqua quando siamo sotto la doccia, chi non sarebbe pronto a farlo?
Ma chiudere il rubinetto del gas che arriva da Mosca per interrompere il flusso di denaro che ogni giorno pompiamo nelle casse del Cremlino non si traduce in case un po’ meno calde d’inverno e un po’ più afose d’estate. Gli effetti sono ben altri. Rinunciando al metano che importiamo dalla Russia, cioè al 40% del nostro fabbisogno, il prezzo della bolletta andrà alle stelle, perché saremo costretti a ricorrere a forniture meno convenienti, acquistando ciò che ci serve per far funzionare le nostre centrali a prezzi di mercato più alti. È una legge dell’economia: se l’offerta diminuisce e la domanda sale si paga di più. Migliaia di aziende, quindi, saranno costrette a chiudere.
C’è chi ha calcolato che gli effetti si tradurranno in oltre mezzo milione di disoccupati in più, ma probabilmente la stima è al ribasso. Già ora, che non è stato deciso lo stop alle importazioni di metano, molte imprese soffrono. Un po’ per il boom dei prezzi delle materie prime, un po’ per i costi energetici. Si fa presto a dire guerra e altrettanto in fretta si può dire meglio la pace dell’aria condizionata.
Ma la questione non si risolve così. Carlo Cambi e Guido Fontanelli, in questo numero di Panorama, spiegano che cosa sta succedendo nelle nostre aziende. Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi, qualche pagina dopo, raccontano quali componenti ci verranno a mancare e si tratta quasi sempre di materiale fondamentale per la produzione di congegni e mezzi tra i più avanzati. La guerra ferma le aziende, non solo l’aria condizionata, e inseguendo la pace a suon di sanzioni bisogna ricordare che queste fanno male a chi le riceve, ma anche a chi le impone.
In questi giorni ho raccolto le lamentele di tre imprenditori che operano in settori totalmente diversi, ma che pur senza averne alcuna colpa all’improvviso si sono ritrovati nel mirino dei provvedimenti decisi dalla Ue. Il primo è un industriale bresciano, produttore di valvole, che dalla sera alla mattina ha scoperto di non poter più esportare i suoi prodotti in Russia. Un danno enorme, anche se i suoi sistemi per regolare i flussi di liquidi e gas non hanno nulla a che fare con il conflitto.
E che dire di quel fabbricante di scarpe che, avendo ricevuto ordini a gennaio, ha spedito la merce in Russia e attendeva di essere pagato ai primi di marzo: all’improvviso è rimasto impigliato nelle sanzioni e ha dovuto dire addio al suo credito. Poi c’è il produttore di vino che da vent’anni manda bottiglie a Mosca e come il suo collega marchigiano, quello delle scarpe, si è ritrovato senza volerlo in mezzo al conflitto, con i pagamenti bloccati.
Sì, si fa presto a dire guerra e anche a dire che bisogna applicare sanzioni ancora più dure, come fa il segretario del Pd, ma prima di parlare forse bisognerebbe pensare e poi chiedersi: ma chi le paga? La risposta è semplice: le pagheranno i russi, certo, ma anche gli italiani. E chi lo dirà alle famiglie che resteranno senza lavoro e con bollette di gas e luce che sono triplicate? Altro che alternativa tra pace o condizionatore, come ha detto Draghi. La domanda corretta è la seguente: volete la pace? Siete pronti a fare la fame?
